L’angolo di Michele Anselmi 

Credergli? “Sono un feticista delle parole, un ascoltatore, un audiofilo” sostiene lo scrittore Philip in una scena del film “Tromperie – Inganno” di Arnaud Desplechin. Philip come Philip Roth, infatti alla base c’è un libro scritto nel 1990 dal romanziere americano, lo si trova da noi con Einaudi, e naturalmente autobiografia, invenzione, variazioni sul tema si mischiano in questo denso racconto sull’amore irrisolto che il regista francese, oggi sessantenne, ha trasformato in una serie di avvincenti duetti di impianto teatrale ma non troppo, girati nel settembre 2020, in tempi di pandemia minacciosa.
Uscito giovedì scorso con No.Mad Entertainment, il film è di quelli che caldamente raccomando, perché insinuante, profondo, ben recitato, magnificamente condotto. Come tanti, non è un successo, il botteghino registra appena 15 mila euro nel primo weekend, quello del 1° Maggio; e tuttavia sarebbe un peccato che “Tromperie – Inganno” non trovasse un suo pubblico, magari di nicchia ma disposto a sostenerlo con un cordiale passa parola.
Il “feticista delle parole”, appunto Philip, è un sessantenne scrittore americano, ebreo, che vive a Londra, siamo nel 1987. La sua vita sentimentale è piuttosto incasinata: adesso sembra concentrarsi su una giovane donna inglese, bella, arguta e sensuale, che invita volentieri nel suo studio per farci l’amore e poi parlare di quell’amore. Lei è una madre infelicemente sposata; lui, lo scrittore, intrattiene con la moglie, rassegnata, un rapporto ormai fraterno. Poi ci sono le altre, alcune raggiunte al telefono, altre incontrate per motivi professionali: un vecchia amica malata di cancro, un’ex studentessa un po’ svalvolata, una profuga cecoslovacca… Uomini? Solo due, e il sesso non c’entra: il suo vecchio padre e un regista dell’Est.
Diviso in capitoli, dodici compreso l’epilogo, il film isola morbidamente, senza precisare le date ma annotando i luoghi, i dialoghi che lo scrittore intrattiene con i sette personaggi. Philip pare uscire a tratti da un film di Woody Allen, per l’abbigliamento sgualcito e le battute sugli ebrei, anche per il quieto atteggiamento con il quale osserva le strettoie dell’esistenza, sempre indulgente e ironico con sé stesso. Opportunamente Desplechin limita all’essenziale i fatti, intendo il sesso agito, per concentrarsi sulle parole: ne esce un diario intimo a più voci sulla fedeltà, sottile, complesso, anche conturbante, nel quale risuonano tensioni universali, bugie e omissioni, intimità e vergogne, sempre sul filo dell’ambiguità (sarà tutto vero o è tutto inventato?).
Naturalmente è la vicenda centrale, costruita sugli incontri clandestini tra Philip e la giovane amante inglese, a rendere così speciale questo film; e certo i due attori francesi coinvolti, cioè Denis Podalydès, appena visto nel loffio “Gli amori di Anaïs”, e Léa Seydoux, reduce dall’ultimo 007, danno il meglio di sé in questo corpo a corpo, tra malizia e sincerità, sui temi del tradimento coniugale. Ma anche gli altri interpreti coinvolti sono scelti bene, a partire da Emannuelle Devos nei panni dell’amica malata.
In una chiave antinaturalistica, così diversa dal clima poliziesco del precedente film “Roubaix, una luce nell’ombra”, Desplechin conduce il gioco dialettico all’insegna di un’eleganza formale funzionale al progetto estetico, che contempla un continuo tappeto musicale di sottofondo, un’illuminazione smaltata (firma Yorick Le Saux), la scelta del francese pur in un contesto anglofono. Il doppiaggio è ben reso, ma se trovate la versione originale coi sottotitoli be’ tutto migliora.

Michele Anselmi