Gus Van Sant è senza dubbio uno dei registi più eclettici degli ultimi decenni della storia del cinema. Per questo l’uscita di ogni nuovo film del regista canadese è sempre accompagnata da un’ansia febbrile, un’endemica volontà di seguire i pellegrinaggi del suo sguardo attraverso le multiformi esperienze dell’esistenza. Promised Land non smentisce questa linea e si colloca efficacemente in un momento della carriera di Van Sant che ancora non è possibile inquadrare perfettamente: dopo l’esperienza della cosiddetta trilogia della morte (vero e proprio apogeo del suo sperimentalismo, iniziato anni prima con il troppo spesso dimenticato Mala Noche e poi a lungo abbandonato), ha deciso di fare un passo indietro, reinserendo le proprie creazioni in un impianto narrativo più solido e presente. Come L’amore che resta era la trasposizione filmica di un perfetto melodramma “metastasiano”, così questa nuova uscita sembra essere il corrispettivo per immagini di una vecchia canzone popolare.

La cosa potrebbe apparire sconcertante se si dà un occhio alla trama, che appare molto (forse anche troppo) legata alle problematiche della più stretta contemporaneità: fonti di energia rinnovabile, pericoli ambientali, crisi economica. Quello che potrebbe apparire un drastico cambio di registro, assolutamente o parzialmente inspiegabile, può però essere tranquillamente naturalizzato alla luce di alcune osservazioni che riallacciano Promised Land alle precedenti produzioni vansantiane. La presenza di Matt Damon è, intanto, una costante che non può essere sottovalutata, soprattutto considerando che l’attore era stato scelto dal regista come protagonista del suo capolavoro insuperato: Gerry. E così, il sopravvissuto all’inferno di sabbia che era stato tratto in salvo da un sospettoso padre di famiglia, ritorna in questo film a confrontarsi con la violenza dell’esistenza. Non a caso uno dei primi personaggi con cui Matt Damon si confronta si chiama proprio Gerry. L’americano-tipo che nel 2002 aveva dovuto uccidere se stesso per salvarsi, ritorna a dieci anni di distanza (il film è uscito negli USA nel 2012) a confrontarsi con i suoi demoni. Se Gerry era l’Inferno, Promised Land è il Purgatorio della vita degli Stati Uniti, un luogo concreto e ruvido come la terra di una fattoria, dove l’uomo può e deve soffrire.

L’altro grande protagonista del film è proprio il paesaggio americano, quel microcosmo tanto amato da Van Sant, mostratoci spesso con impietoso realismo ma mai senza una punta di malinconica poesia. L’insistenza sulla strada, spesso ripresa a volo d’uccello, ci riporta alle sfrenate corse in auto del già citato Mala Noche, a una concezione della realtà come mobile, fluida, come un luogo di passaggio momentaneo. Splendida è quindi l’immagine della strada di notte, evidenziata solo dalle tenui luci dei lampioni che, strappandola all’indeterminatezza delle tenebre, la fanno rassomigliare a una processione di fiammelle cimiteriali, come di spiriti che si avviano al trapasso.

Quello che van Sant mette in scena, insomma, è il Purgatorio di un’intera nazione, la possibilità dell’America tutta di potersi riscattare dalle sue gravi colpe, a cui il regista fa continuo riferimento nel corso del film. Su tutte citiamo la scena in cui Matt Damon è messo “sotto accusa” di fronte alla popolazione cittadina dal professore di scienze del liceo locale, Frank Yates. Il primo piano del protagonista mette in evidenza il volto scavato dalla preoccupazione, costantemente incalzato dalle domande di una voce de-individualizzata mentre dietro di lui si staglia, significativamente, la bandiera a stelle e strisce.

Uno dei punti apparentemente più inconsueti di questa nuova fatica filmica è la scarsa o quasi assente attenzione che Van Sant rivolge alla sua categoria d’elezione: gli adolescenti. Qui essi non appaiono, se non come astanti silenziosi di discorsi che, pur riguardandoli da vicino, non li vedono protagonisti. La cosa però non deve sconvolgere più di tanto: in pellicole come Elephant, Paranoid Park o Restless, il predominio assoluto di figure sospese fra la fanciullezza e l’età adulta era dovuto al fatto che il regista voleva indagare una zona di confine, che qui invece non rientra precipuamente fra i suoi interessi. In Promised Land, invece, è molto più forte la presenza dei bambini, testimoni impotenti ma comunque fondamentali di un processo di trasmissione di proprietà e valori che ha tutta l’aria di un’eredità esistenziale. In fin dei conti, tutte le azioni compiute dai personaggi sono dettate dall’esigenza di dare ai propri figli un futuro migliore, regalandogli quella terra promessa cui allude, con significativo riferimento biblico, il titolo del film.

Un ultimo aspetto degno di attenzione è evidentemente quello della denuncia sociale, aspetto evidenziato molto bene anche dal trailer italiano del film. Ebbene, anche a costo di destare sorpresa e disapprovazione, sembra necessario evidenziare che questo non è certamente lo scopo principale di Van Sant (sarebbe, in effetti, ben strano). Tutto l’impianto narrativo, in ultima analisi, per quanto sicuramente dettato dalla volontà di rimanere attaccati al presente, non è assolutamente subordinato alla volontà di adottare una linea di pensiero green. Lo conferma innanzitutto l’epilogo del film, giustamente lasciato nell’indeterminatezza e soprattutto un’attenzione eccessiva per alcuni frammenti della campagna americana. Frammenti poveri, desolati, abbandonati, che hanno tutta l’aria di essere simulacri ormai spenti, fermi immagine di una vita morta e immobile.

Al di là dell’intento sociale che si potrebbe leggere in questa pellicola, sembra quindi molto più importante la presenza di filoni più nascosti ma anche più compatibili con la poetica vansantiana – che raggiunge l’apice nel momento in cui si comprende che il travaglio dell’uomo americano/Gerry/Matt Damon ha, alla fine, la sua contropartita -, manifesta in un sentimento amoroso appena accennato, un guizzo di speranza che ha solo la forza per promettersi allo spettatore, come sospeso fra le note di una malinconica ballata.

Giuseppe Previtali