Vorrei parlare della psicologia della riforma della Rai, in attesa di sapere se mai si farà. Uso il termine psicologia perché anche gli atti governativi hanno un’anima. L’hanno nella testa di chi li propone. La psicologia dell’uomo Renzi è di tipo bipolare. Prima dice una cosa, poi fa il contrario. Nel 2014 ha dichiarato di “non volersi occupare della Rai”, ma poi… A marzo di quest’anno ha deciso di volerne fare “la più innovativa azienda culturale che esiste in Europa”, ma di cultura vera, capace di pensiero critico e antagonista al potere, non ne vedo traccia. Più volte ha affermato di voler sottrarre l’azienda al “giogo politico”, eppure l’attuale proposta di legge la rende ancora più dipendente, forse peggio della scellerata Gasparri. Ha dichiarato di voler mettere il canone nella bolletta elettrica, salvo un minuto dopo ritrattare. Sostiene che in cuor suo vorrebbe eliminare il canone (in Spagna sono andati oltre, togliendo pure la pubblicità), poi però ha aggiunto che non si può. Ha annunciato una “consultazione popolare”, sulla falsariga dell’esempio BBC per conoscere le opinioni del pubblico. Sparita dal programma. Sarebbe stata un’ottima pratica.

Come si può riformare la Rai senza tenere conto di cosa pensa il suo vero referente, cioè il pubblico? Insomma, siamo di fronte a un fiume di eccellenti proposte a cui segue il nulla. Il premier deve aver preso per buone le parole di Alessandro Manzoni: “spesso l’annunzio di una cosa la fa essere”. In realtà, la proposta di riforma qual è oggi rappresenta un triste passo indietro rispetto alle aspettative, quasi a dimostrare l’opinione che l’azienda sia di fatto irriformabile. Basterebbe averne davvero voglia e tirare fuori dal cilindro una proposta seria, elaborata da gente competente. Se passiamo in rassegna i titoli della stampa, dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore, vediamo che tutti, ma proprio tutti, sono rimasti delusi, perché era stato lo stesso premier ad accendere le speranze. E qui viene in soccorso Freud. Cosa ha spinto la mente di Renzi a fare tanti passi indietro? Azzardo qualche ipotesi: essersi accorto che mirare alto significherebbe perdere il controllo politico; aver valutato i costi di una riforma radicale e aver compreso di non avere i soldi (basterebbe accorciare di pochi millimetri le ali degli F35); essersi guardato attorno e aver scoperto che il personale in forza all’azienda non è in grado di praticare il rinnovamento; aver pensato che la televisione generalista è ormai obsoleta e destinata al declino; infine aver deciso che è meglio lasciarla com’è per dominarla meglio. Mi stupisce l’afasia della società cosiddetta civile e degli intellettuali, come se la riforma della Rai, la più grande azienda culturale del paese, non li riguardasse. A luglio 2014 Asor Rosa ha scritto sul Manifesto un memorabile editoriale, che spiega bene la psiche del premier. Il partito unico cui aspira, scriveva l’autore, non ha bisogno di una Rai bellicosa divisa tra maggioranza e opposizione. Meglio neutralizzarla. Il disegno ultimo è la costruzione di “un polo brutalmente unificante”, seguito dalla cancellazione di ogni conflitto, drammaticamente estraneo alla democrazia come l’abbiamo conosciuta. Analisi spietata, che si spera eccessiva. Stare in guardia però male non fa. Benedetto Croce lo diceva della superstizione. Noi diciamolo della televisione e incrociamo le dita.

Nell’introduzione al libro che ho da poco pubblicato on line, “FiniRai”, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella fanno un esame dell’azienda pubblica che porta dritto alla privatizzazione. Se la Rai viene lasciata com’è, vassalla del potere politico, finirà per deflagrare. Il passo successivo non può che essere la vendita, prima di qualche pezzo, quindi dell’intera compagine. Potrebbe essere l’antipasto di un mesto futuro il collocamento in borsa di Rai Way. Gli amministratori non sapevano che con quella mossa l’avrebbero esposta ai tentativi di scalata? Per ora l’assalto pare respinto, ma temo solo provvisoriamente. A ben vedere la Rai corre gli stessi rischi. Depotenziata da una riforma che tale non è, l’azzardo è che prima o poi finirà sul mercato. Presto non basteranno più le risorse per tenere in piedi un’impresa con oltre 12.000 dipendenti, i quali, a detta degli economisti più accreditati, rappresentano un surplus insostenibile, anche perchè assunti in maggioranza via lottizzazione, una mostruosità che vige solo da noi. Se citi la parola agli stranieri non capiscono. Per quanto critico dello stato attuale dell’azienda, io sono tra quelli che la vorrebbero vedere più forte e soprattutto più libera. Data l’imminente scadenza, il parlamento potrebbe non trovare il tempo di varare la riforma. A quel punto il governo sarà legittimato a nominare i nuovi vertici. Colpa dei deputati, ci verrà spiegato. Spero di sbagliare. Sarebbe bello pubblicare un prossimo libro col titolo “RisorgeRai”, come mi ha proposto un gruppo di appassionati dipendenti dell’azienda.

Roberto Faenza