L’angolo di Michele Anselmi
Credo di non essere un tipo nostalgico, uno che rimpiange “i bei tempi andati”, anche perché spesso tanto belli non erano. Ma ieri mattina, camminando in attesa del vaporetto per un Lido ormai semivuoto, silenzioso, cioè tornato ai suoi ritmi naturali, placidi e sereni, coi prezzi di ristoranti e alberghi riportati a livelli decenti, ho ripensato a certe Mostre della mia giovinezza.
Non tanto ai film (chi se li ricorda?), ma a un certo clima “sociale” che avvolgeva quelle trasferte giornalistiche, così diverso da quello attuale: compresso e affannoso, in fondo pure poco amichevole.
Ho ripensato soprattutto al periodo fine anni Ottanta e primi Novanta, noi de “l’Unità” eravamo perlopiù ospitati, per una cifra ragionevole, nella bella casa in via Lepanto del professor Giorgio Vercellin che insegnava afgano e persiano all’università Orientale, purtroppo morto troppo giovane a causa di un infarto micidiale.
Erano anni strani. Il legame con i colleghi, anche di altre testate, si faceva sentire, specie la sera. Ricordo le biciclettate in gruppo verso “Paolino”, una trattoria sulla spiaggia, parecchio dopo il vecchio ospedale oggi chiuso, dove si cenava verso le otto di sera, stava già imbrunendo, perché alle 22.30 c’era l’ultima proiezione stampa dei film in concorso in Sala Perla, dove tutti perlopiù dormivano, specie coi film portoghesi, complici il vino e gli spaghetti con la granceola. Oppure, se qualcuno era venuto in automobile, rammento le scorribande verso “gli Alberoni”, dove avevamo scoperto un ottimo ristorante di pesce.
Il gruppo? Capitava di andare con Piera Detassis, Paolo D’Agostini, Enrico Magrelli, Giovanni Spagnoletti, Matilde Passa e altri di cui oggi non mi viene il nome, e mi scuso. Tornavamo affannati, inforcando le bici in affitto, per non perdere l’inizio dei film della sera. Il colpo d’occhio a volte era impressionante, entrando alla Perla: tutti già piegati a sinistra sulle poltrone, mezzo assopiti, bendisposti al sonno ristoratore (a fine proiezione era tutto un domandarsi: “Ma tu fin dove ricordi?”).
Altre volte, invece, si andava in un ristorante che non esiste più, subito dietro il Palazzo del cinema: “L’Artigliere”. Lì pasteggiavano i big della critica con rimborso spese più corposo: penso a Tullio Kezich, Claudio Carabba, Alessandra Levantesi, Giovanni Grazzini, Valerio Caprara, Orazio Gavioli, Lino Micciché, forse Morando Morandini. Per me era divertente aggiungermi a quelle tavolate di cine-scribi illustri, perché imparavo cose che non sapevo, cercando di risparmiare un po’ sul menù (a “l’Unità” erano giustamente tirati sulle spese).
E comunque era tutto più calmo. I film contavano più delle cronache, non si inseguiva solo la battuta polemica di quel regista o di quell’attore nella speranza di avere un titolo forte, non faceva fede solo ciò che scriveva l’Ansa (e sì che su quelle cine-scaramucce io avrei costruito un po’ della mia fortuna giornalistica, prima a “l’Unità” e poi sui altri giornali: dal “Foglio” al “Riformista”, dal “il Giornale” a “il Secolo XIX”).
Ma è anche vero che la tecnologia non ci aiutava. Scrivevo i miei pezzi con la macchina per scrivere Lettera 22, verde pallido, regalatami da mio padre, e li dettavo agli stenografi non avendo un fax sotto mano (mica facile per un balbuziente); poi arrivarono dei piccoli modem che si collegavano alla cornetta del telefono fisso e le cose andarono un po’ meglio, sempre che partisse quel fischio che dava il via alla trasmissione.
Nessuno di noi era mai stanco, si vedevano talvolta i film a mezzanotte, ci si imbucava in qualche festa senza troppi problemi, c’era una vitalità, figlia dell’età, che ora sembra svanita, svaporata. Adesso ceni sempre con gli stessi amici di banco, talvolta da solo, e non vedi l’ora di andare a letto perché la mattina dopo la sveglia è alle 7 e c’è pure la rottura delle prenotazioni digitali che fanno impazzire chiunque.
Un’ultima cosa, a suo modo buffa. Quando Gillo Pontecorvo mi volle tra i suoi selezionatori, all’inizio il rapporto non fu facile, dopo però diventammo amici e nacque un grande rispetto reciproco. All’epoca non erano contemplati compensi per gli esperti, adesso sì; però ero ospitato al Des Bains, quello di “Morte a Venezia”, allora aperto, sontuoso, ribollente di vip. La prima sera, tornando da una proiezione, fui fermato all’ingresso da una guardia giurata. “Lei dove va?” chiese in modo ruvido. “Veramente io alloggerei qui” risposi sorridendo. Non mi credette, sarà stata la barba e l’abito poco elegante; infatti mi accompagnò fino alla reception, per avere la conferma che non fossi un imbucato.
Michele Anselmi
(Nella foto: io al lavoro per “l’Unità” nella casa di via Lepanto al Lido)