L’angolo di Michele Anselmi
Ma è proprio necessario sapere com’è stato girato un film? Targato Fandango, oggi 17 giugno arriva su RaiPlay “Il giorno e la notte” di Daniele Vicari, e leggo che il regista romano, uomo colto e appassionato, sempre schierato a sinistra, ha spiegato così la genesi del suo film: “Non è stato un atto di sopravvivenza, quanto di resistenza. Un’azione vitalistica in un momento drammatico per il nostro Paese”.
Essendo stato realizzato durante il primo lockdown, “Il giorno e la notte” a suo modo può essere visto come un esperimento, pare si dica “smart filming”: i nove attori coinvolti, oltre a recitare, si sono sostituiti al resto della troupe, sistemando personalmente le telecamerine, le luci, curando il trucco e la posizione degli oggetti di scena. Il tutto, tramite videochiamate, sotto il coordinamento del regista, del direttore della fotografia e del microfonista. Curioso. Non di meno, penso che lo spettatore possa benissimo non sapere, perché ciò che conta alla fine è quanto il film mostra.
Il copione di Andrea Cedrola e dello stesso Vicari racconta una “clausura” forzata, ma non parla di Covid. Si immagina, e un po’ bisogna crederci, che a Roma sia scattato l’allarme per un probabile attacco chimico-batteriologico. Per rendere più autentica la faccenda sentiamo Conte e Gabrielli che parlano in tv, le strade sono deserte o presidiate dai militari, un clima di crescente tensione si impossessa dei personaggi, ma in fondo neanche tanto.
Vicari osserva quattro coppie, tre delle quali costrette per qualche ora, appunto un giorno e una notte, a una convivenza forzata. 1) Un marito e una moglie che si sono separati dopo aver perso un figlio provano a dirsi tutto: lui, psicologicamente deragliato, vorrebbe ricominciare, mentre lei forse pensa ad altro; 2) Un quieto restauratore di mobili vede irrompere nel suo laboratorio una bella donna vestita di rosso, da lui sempre amata, solo che è sposata col suo migliore amico, il quale ora termpesta entrambi di telefonate; 3) Un attore vanesio e vanitoso, che si atteggia a De Niro, maltratta la sua compagna, una sceneggiatrice alle prese con un copione nel quale sono confluiti dettagli sessuali imbarazzanti per l’uomo. 4) Una coppia a distanza: avrebbero dovuto incontrarsi dalle parti di Verona, ma l’improvviso lockdown li costringe a una lunga conversazione via telefono, con lei, diffidente verso il genere maschile, che custodisce un segreto e lui che ha mollato l’università per fare il contadino.
“Ma che cazzo sta succedendo in città?” si chiede il restauratore. In attesa di capire come evolverà la situazione, Vicari si inserisce nelle dinamiche sentimentali di queste quattro coppie “a rischio”, in bilico tra amore e disamore, audacia e rinuncia, sensualità e distacco. Sono gli uomini, forse, a uscire peggio da questo catalogo dei sentimenti messo sotto stress emotivo, dove ciascuno dei nove personaggi, nel giro di 90 minuti, si mette a nudo, in un caso anche fisicamente, in una sorta di spogliarello morale un po’ alla Albee.
I nove attori coinvolti sono Dario Aita, Elena Gigliotti, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli, Isabella Ragonese, Matteo Martari, Milena Mancini, Vinicio Marchioni, Giordano De Plano; ogni tanto qualcuno esagera nella caratterizzazione nevrotica, ma in generale l’impianto teatrale/casalingo bene rispecchia le psicologie, i tormenti, i dilemmi e i mestieri in campo.
Vicari ingigantisce i dettagli in chiave erotica, dissemina qualche cine-omaggio qua e là (una scena sotto la doccia ricorda l’incipit del “Grande freddo”), e molto spalma le musiche di Teho Teardo sulla condizione umana dei nove protagonisti, direi sin troppo. Ma il finale scandito dal toccante “Still Got the Blues” di Gary Moore è intonato ai tormenti delle quattro coppie. Sarà merito degli accordi in minore?
Michele Anselmi