L’angolo di Michele Anselmi
Il 7 settembre scorso passò in concorso alla Mostra del cinema di Venezia un film ucraino, intitolato “Vidblysk” (significa “riflesso”). Ricordo i “buu”, le insofferenze, addirittura i “vergogna!” piovuti, alla fine di una proiezione per i critici: più per lo stile adottato che per la storia raccontata. In effetti il cinquantenne Valentin Vasyanovych imponeva allo spettatore una discreta prova di pazienza, ma è anche vero, scrissi qui su Facebook e Cinemonitor, “che siamo a una Mostra d’arte cinematografica, dove si confrontano linguaggi anche assai diversi tra loro. E per fortuna”.
Il film non vinse nulla e immagino che nessuno abbia intenzione di acquistarlo per farlo uscire in Italia (magari ci penserà una piattaforma digitale), nemmeno ora che la massiccia operazione militare russa in Ucraina, temuta da mesi e sull’origine della quale preferisco non prendere partito, ci sta dicendo quanto quell’enorme area che fu sovietica sia sottoposta a tensioni geo-politiche, ovvero al rischio di nuovi massacri e atrocità.
Nell’arco di 125 minuti, Vasyanovych impagina il racconto attraverso lunghe sequenze a inquadratura fissa, frontale, senza campi e controcampi sui visi, diciamo un po’ “alla” Tarkovskij, e solo di rado la cinepresa si mette in movimento. Non bastasse, ci sono tempi dilatati, estenuanti, quasi a sfidare l’insofferenza di chi sta guardando. Ma anch’essi corrispondano al doloroso sentimento racchiuso nel film.
È il 2014, primo anno del conflitto tra Ucraina e Russia, quando Putin, dopo un referendum forse illegittimo, rivendica l’annessione di Crimea e Donbass alla Federazione russa. A Kiev il chirurgo Serhiy sta per partire per il fronte, poco convinto. S’è separato dalla moglie, che ora sta con un soldato impegnato nei combattimenti, e vorrebbe occuparsi meglio della figlia adolescente. La prima scena è magnifica: gli adulti parlano preoccupati della guerra, mentre i loro figli, dentro sottili tute bianche, si sparano allegramente addosso proiettili di vernice.
Si muore davvero, invece, a non troppi chilometri di distanza, e il peggio, per il medico, arriva quando viene catturato dagli “specialisti” russi, senza divisa, mandati in soccorso ai “separatisti” sul campo. Umiliato, angariato, picchiato, Serhiy viene risparmiato perché utile al controllo dei prigionieri seviziati e forse in vista di uno scambio. Una volta liberato e tornato nella sua casa borghese con finestra panoramica, non sarà più l’uomo di prima. Forse migliore, di sicuro più capace di prendersi cura della figlia. Ma riuscirà a confessare l’atroce, squassante, segreto che custodisce?
Le torture praticate dai russi sono rese con minuziosa ferocia, e viene da chiudere gli occhi di fronte a tali crudeltà; ma lo sguardo non è gratuito, serve a spiegare, senza troppe parole, la scorticata condizione umana del protagonista. Certo “Vidblysk” non è una passeggiata, e magari alcune allegorie potranno risultare poetizzanti (quel piccione che si sfracella sul vetro, i cani inselvatichiti nel parco, i ricchi ucraini che giocano a Polo); ma si esce dal film disposti a condividere con i protagonisti della storia il lento ritorno a una specie di normalità.
Quella normalità che oggi, 24 febbraio 2022, sembra di nuovo scandita dai ritmi di una guerra ancora più estesa, rispetto al 2014, e minacciosa.
Michele Anselmi