L’angolo di Michele Anselmi

Sistemo un po’ di vecchie lettere e ne trovo una di un regista famoso, ancora attivo, diciamo. Scrive a un certo punto: “Non ho mai tolto il saluto a nessuno, ma per te farò un’eccezione”. Accidenti! Ignoravo, all’epoca, che la battuta non fosse originale, l’aveva sparata tanto tempo prima Vittorio Gassman in faccia a Dino Risi. E pensare che i due erano amici per la pelle ma per un anno non si parlarono, fino a quando Mario Cecchi Gori non li convocò a cena per proporre a entrambi un film. La leggenda vuole che il produttore abbia intimato: “Adesso fate pace!”. E Gassman, sorpreso: “Perché, avevamo litigato?”.
Vero o falso che sia l’episodio, ogni tanto ripenso ai tanti che in circa 45 anni di giornalismo – alcuni buoni e altri meno buoni ma tutti nella libertà, per dirla con un celebre slogan della Dc – mi hanno tolto il saluto, giurandomela di brutto o spettegolando sul sottoscritto.
Sapete che faccio sempre nomi e cognomi, non mi piace alludere, preferisco la polemica diretta, chiara, esplicita; ma alcuni sono morti, altri non fanno più film da anni, altri ancora alla fine mi hanno chiesto scusa, sia pure in modi un po’ contorti.
Poi, certo, sarà stata anche e soprattutto colpa mia, avrò scritto recensioni “antipatizzanti”, fondate talvolta su pregiudizi e riflessi umorali, poco motivate sul piano dell’analisi, benché non abbia mai praticato la stroncatura per la stroncatura, insomma come piccolo esercizio letterario per farsi temere, anzi ci sono stati anni nei quali sono stato definito “un critico estatico” più che “estetico”.
Ma il saluto, credo, non si toglie a nessuno, a meno che non vi siano di mezzo dei torti insanabili, delle ferite non cicatrizzabili, delle colpe imperdonabili. Naturalmente può succedere che per un po’, di fronte a uno che ti sta sulle scatole, tanto più se tu stai sulle scatole a lui, ci si ignori nelle occasioni pubbliche, per non creare nervosismo o rinfocolare inimicizie. Ma dopo un po’ sarebbe buona cosa smetterla, di solito io provo a fare il primo passo, magari tendendo la mano con un sorriso: non si aggiusterà tutto, però, converrete, è una gran rottura atteggiarsi perennemente a offeso.
Purtroppo parecchi del cinema italiano, intendo registi, attori, sceneggiatori, produttori, sono notoriamente permalosi, si segnano al dito un giudizio, una battuta, una polemica giornalistica e non seppelliscono mai più l’ascia di guerra. Nella mia vita di cine-cronista è successo non so quante volte, non è che ne vada fiero, ma è così. In tanti, in effetti, mi hanno tolto il saluto. I motivi?
C’è quello che s’arrabbia perché sei arrivato alla proiezione stampa con dieci minuti di ritardo, peraltro pur di esserci e scrivere del film per dargli una mano, ma all’interessato suona come un affronto e ti chiede di vedere l’incipit, non sai come e quando, prima di buttare giù la recensione, altrimenti meglio niente.
C’è quello che ti rimprovera di aver cambiato giudizio, negli anni, su un film magari da te apprezzato all’uscita per il tema rischioso legato ai campi di sterminio, ma poi, ripensandoci meglio, ritenuto irrispettoso e sopravvalutato, nonostante una vagonata di Oscar, plausi quirinalizi e incassi record.
C’è quello che ti ha dato della “puttana di regime”, del “verme della terra”, del “servo di Urbani”, s’intende del “voltagabbana” perché hai scritto su un giornale di centrodestra per pagare il mutuo di casa non trovando proprio lavoro altrove a sinistra.
C’è quello che, avendo promesso un’intervista in esclusiva a un quotidiano importante, un tempo il più importante per chi fa cinema, se la prende come per fatto personale se tu anticipi sul tuo piccolo giornale d’opinione, grazie a una fonte attendibile, la notizia che avrebbe dovuto reggere tutto lo “scoop” oppure la trama tenuta segretissima per mesi anche agli attori.
C’è quello che ti ritiene fedele, insomma uno del giro amico, e quindi non sopporta che tu scriva una recensione nella quale, magari sbagliando dal suo punto di vista, evidenzi elementi di perplessità, certo opinabili.
C’è quello che non lavora ma “capolavora”, quindi guai a non baciare la pantofola ogni volta che gira un film; salvo poi farti sapere che tu non conti un cazzo perché scrivi su un quotidiano a bassa tiratura, e quindi chi se ne frega.
C’è quello che scrive una lettera di fuoco al tuo giornale, pure insultante, tu la pubblichi per correttezza, solo che in fondo, dopo un filo di nota, metti una breve replica agli insulti. Normale costume. Però il mittente aveva chiesto al tuo direttore, molto amato nel mondo del cinema, che la lettera fosse pubblicata senza replica e quindi il direttore, molto amato nel mondo del cinema, ti rimprovera perché non vuole grane con gli “artisti”.
C’è quello che ti mette in un suo film per rancore meschinello, inventando un personaggio che si chiama come te o ti assomiglia fisicamente, pure facendogli fare le peggio cose sul piano sessuale, sociale o politico.
C’è quello che si vanta di non leggere mai le recensioni perché tanto fa commedie popolari e se ne infischia dei critici; ma poi se la medesima commedia popolare va male al botteghino è anche colpa tua, del critico che non ha capito. E quindi impone al suo ufficio stampa di non invitarti più alle anteprime per i critici.
C’è quello che ti accusa su Facebook, mobilitando l’intera categoria contro di te con post sempre più aggressivi, perché non apprezza ciò che hai scritto su un film al quale ha partecipato da sceneggiatore (ma appena qualche mese prima invece ti aveva ringraziato per una recensione positiva).
Potrei continuare, ma mi fermo qui. Chiedo scusa, ora che sono serenamente in pensione, per aver ferito la soave sensibilità di tanti illustri protagonisti del cinema italiano. Non era mia intenzione provocare un tale, inciprignito, mutismo in occasione di incontri casuali. Il tempo, però, dovrebbe curare le ulcerazioni. Specie se sono cavolate come queste. Morale? Almeno salutiamoci, fosse solo per rassegnato quieto vivere.

Michele Anselmi