L’impero della televisione | Cinica e spietata
Quattro premi Oscar per questa pellicola del 1976 diretta dal grande Sidney Lumet. Crudele e graffiante ritratto della falsa “realtà” televisiva. Una critica feroce al deserto del giornalismo tv, un profetico atto d’accusa allo strapotere del piccolo schermo, cinica e spietata macchina tritacarne.
“La televisione non è la verità! La televisione è un maledetto parco di divertimenti, la televisione è un circo, un carnevale, una troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini, cantanti, giocolieri, fenomeni da baraccone, domatori di leoni, giocatori di calcio! Ammazzare la noia è il nostro solo mestiere…”. Così Howard Beale.
Magnifica ultima interpretazione di Peter Finch, morì d’infarto durante il tour promozionale e venne premiato con il primo Oscar postumo della storia del cinema. Era l’anno di Robert De Niro, Taxi Driver e del Rocky di Sylvester Stallone. Il nostro Giancarlo Giannini era Pasqualino Settebellezze.
Beale anziano anchorman tv, sul viale del tramonto, viene licenziato dalla UBS, grosso network americano a causa dei bassi ascolti. Quando l’uomo disperato, annuncia in diretta tv il proprio suicidio gli ascolti salgono improvvisamente. Con il sostegno di Diana Christensen (bellissima e algida Faye Dunaway, ottenne l’Oscar per il ruolo), giovane e ambiziosa responsabile dei programmi, e di Frank Hackett (Robert Duvall) che mira al vertice della rete, Beale torna sul piccolo schermo nei panni del “pazzo profeta dell’etere” una sorta di guru rivoluzionario che tiene furiosi sermoni, facendo leva sulla rabbia del popolo della tv.
Ciò nonostante Max s’innamorerà della bella Diana lasciando per lei la famiglia, in una sorta di simbolico amplesso tra la nuova tv avida e sprezzante e quella antica più integra e onesta.
Finale tragico ma ironico al tempo stesso.
Francesca Bani