Cineasta geniale e imprevedibile, M. Night Shyamalan ha segnato a fuoco il cinema del fantastico degli ultimi decenni. “Raccontare la notte dell’anima – Il cinema di M. Night Shyamalan”, che Shatter Edizioni porta ora in libreria, analizza il percorso del regista di “Il sesto senso” e “Glass” grazie ad una scrittura chiara e stimolanti letture. Grazie all’intervista con l’autrice Maria Rosaria Borrelli presentiamo la riuscita e più completa monografia dedicata al regista mai pubblicata in Italia.

M. Night Shyamalan è uno dei pochissimi registi-superstar che si ricordino negli ultimi 20 o 30 anni. Quanto ciò è frutto dell’equilibrio che riesce a mantenere tra autorialità e istanza commerciale?

Maria Rosaria Borrelli: Credo che la sua capacità di fondere entrambi gli aspetti sia fondamentale. La sua voce estremamente originale si differenzia dalla produzione cinematografica contemporanea sia sul piano formale che contenutistico, in quanto le sue idee vengono tradotte su grande schermo grazie all’apporto di grandi star ed abili tecnici del settore, ma è tutto filtrato attraverso il suo gusto cinefilo ed il suo stile riconoscibile, in netta controtendenza con il cinema hollywoodiano mainstream.

In “Raccontare la notte dell’anima – Il cinema di M. Night Shyamalan”, che pubblichi per i tipi di Shatter Edizioni, segui il suo percorso a partire dall’esordio “Praying with Anger”, inedito in Italia, fino ad arrivare al recente “Glass”. Come nasce la tua fascinazione per il regista, alla base anche della tua tesi di laurea?

M.R.B.: Fin dalla tenera età sono rimasta particolarmente affascinata da atmosfere e tematiche del cinema horror e della letteratura gotica. Non è purtroppo facile trovare oggigiorno un prodotto esteticamente valido e con la capacità di spaventarmi. Quando vidi al cinema “Il sesto senso”, ben venti anni fa, ne fui completamente rapita.

Parte della tua analisi si concentra sull’evoluzione dello stile dell’autore. Come riassumeresti le varie fasi della filmografia del regista, a partire proprio dal suo modo di girare? Molte delle dichiarazioni raccolte nel libro, inoltre, fanno riferimento a questo tipo d riflessione, rimandando anche a suggestioni precise che vanno da Hitchcock a Kubrick…

M.R.B.: Dopo i primi due film (“Praying with Anger” e “Ad occhi aperti”), che rappresentano una necessaria gavetta, il suo stile, basato sui meccanismi della suspense, diventa immediatamente inconfondibile e maturo: grazie alla Disney, M. Night ha modo di sviluppare il suo pieno potenziale durante quello che definirei il suo “periodo d’oro”, che vede in sequenza la realizzazione de “Il sesto senso”, “Unbreakable”, “Signs” e “The Village”. Grazie a queste pellicole, inoltre, il colpo di scena finale diventa il suo marchio di fabbrica. Dopo la rottura con la Disney, causata da divergenze di opinione prima della produzione di “Lady in the Water”, si apre una fase di declino dovuto alla sfiducia generale da parte di major, critica e pubblico, che decreta un senso di sfiducia nell’autore stesso, così costretto a dover scendere a compromessi con la sua integrità artistica (anche se, personalmente, apprezzo molto “E venne il giorno”). Dal 2015 si apre una nuova stagione positiva per Shyamalan, grazie all’appoggio di Jason Blum e del canale Fox e al riscontro ricevuto per l’horror “The Visit” e la serie tv “Wayard Pines”. M. Night stesso sembra aver ritrovato la sua voce con una rinnovata voglia di raccontare storie scaturite dalla sua fantasia, questa volta mantenendo pieno controllo artistico.

Da ragazzo d’oro di Hollywood, Shyamalan ha conosciuto rovesci della fortuna a causa di pellicole che non hanno incontrato il favore del pubblico, penso ad esempio ad uno dei suoi film più incompresi, “Lady in the Water”. Quale credi sia il motivo di questa svolta?

M.R.B.: Purtroppo il successo de “Il sesto senso” si rivelò anche una condanna per l’autore, poiché influenzò enormemente le aspettative di critica e pubblico. In verità dopo “Il sesto senso” ha realizzato film migliori, come afferma egli stesso. “Unbreakable”, ad esempio, per forma e contenuto è una pellicola molto più audace. Personalmente ritengo che i suoi film migliori siano quelli che innestano l’elemento di genere su una base drammatica e realistica, come “Unbreakable” e “Signs”. Pensiamo ad esempio al genere fantastico: gli è certamente più congeniale il fantastico quotidiano (in cui il soprannaturale irrompe nella sfera del quotidiano ed invade la dimensione interiore dell’uomo) rispetto al fantastico visionario, ambientato interamente in un luogo immaginario. Reputo infatti “L’ultimo dominatore dell’aria” il suo lavoro meno riuscito, per molteplici fattori.

Nel tuo saggio, analizzi “Stuart Little – Un topolino in gamba”, per cui M. Night ha scritto la sceneggiatura, ma non la serie “Wayward Pines”…

M.R.B.:
Purtroppo, per ragioni logistiche, ho preferito concentrarmi solo sulla sua produzione cinematografica e tralasciare quella televisiva, di cui potete comunque trovare notizie in bibliografia. A tal proposito sono molto curiosa della prossima serie in uscita per la Apple, “Servant”.

Nella trattazione di “The Village”, scrivi un interessante capitolo dal titolo “Problemi di genere”. Se l’unico horror veramente tale, anche a detta dell’autore, rimane “The Visit”, quali sono i generi in cui rientrano titoli come “Il sesto senso” o, appunto, il bellissimo “The Village”? Puoi spiegare il problema della classificazione del cinema di Shyamalan?

M.R.B.: Come sottolinea egli stesso, quasi tutti i suoi film sono sempre ibridi, a metà fra dramma e genere, dove l’elemento fantastico è metafora e pretesto, usato per trattare argomenti importanti quali la fede ma senza ricorrere alla religione. Purtroppo la confusione di cui lamenta lo stesso Shyamalan nasce anche dal modo in cui vengono presentati al pubblico, come appunto prodotti interamente di genere.

Benché iscritto in quel cinema del soprannaturale in cui si potrebbe annettere tutta la sua opera, “E venne il giorno” rinuncia al twist finale del cinema di M. Night, risultando meno personale, ma “più grande”, probabilmente anche per le numerose sequenze a cielo aperto. Credi sia giusto definire questo titolo come uno spartiacque tra un prima e un dopo all’interno della sua filmografia?

M.R.B.: Come spiego nella mia monografia, in realtà “E venne il giorno” è molto affine a “Signs” e quindi non lo reputo un prodotto “a parte” rispetto alla filmografia targata Disney. Rientra però in quella che possiamo definire “fase di declino”, di cui ho già accennato, che comprende anche “Lady in the Water”, “L’ultimo dominatore dell’aria” e “After Earth”. Credo che però questi film abbiano ricevuto critiche immotivate se non del tutto gratuite ed ognuno presenta componenti degne di note, quali ad esempio la fotografia o la colonna sonora. Bisognerebbe riguardarli tutti senza pregiudizi e spero che le mie analisi aiutino nella comprensione di film che lo spettatore ha apprezzato di meno.

In che modo la “Trilogia dell’Eastrail 177” riesce a fondere thriller e cinecomic, dando inoltre una lettura critica della realtà che rappresenta? Qual è la tematica principale di ognuno dei tre titoli?

M.R.B.: La trilogia presenta capitoli con uno stile ed un “carattere” diverso fra loro ma ogni film sfrutta i meccanismi della suspense: il racconto genera tensione nello spettatore che man mano viene a conoscenza, assieme ai protagonisti, delle potenzialità infinite dell’essere umano. Ogni capitolo rappresenta una diversa origin story; “Unbreakable” racconta la scoperta, da parte di un uomo di mezza età che attraversa una crisi d’identità, di possedere veri e propri superpoteri; “Split” invece si concentra sulle infinite potenzialità del cervello umano e sull’evoluzione dell’animo attraverso la sofferenza. I tre film di fatto decostruiscono il cinecomic tipico, non presentando una risoluzione che normalmente avviene, attraverso lo showdown, soprattutto perché l’ambientazione è fortemente realistica, quindi i problemi e le possibili soluzioni devono tener conto del “mondo reale”. Qui non possono esistere supereroi, la nostra società impone la “normalità” a tutti i costi e l’alterità o la diversità devono necessariamente essere soppresse. L’individualità viene repressa. Questa è la critica maggiore che Shyamalan muove, soprattutto in conclusione alla trilogia.