L’angolo di Michele Anselmi
“Eh sì, Giulio, io ti ho sottovalutato per circa 70 anni” sussurra Vittorio Gassman al fratello Carlo Dapporto (ma la voce è del figlio Massimo) nel sottofinale di “La famiglia”, il film che Ettore Scola girò nel 1986. Ero certo di conoscerlo a memoria, invece ieri, complice il cielo nuvoloso e una certa pigrizia domenicale, ho voluto rivederlo su La7, subito dopo pranzo. La verità? M’è parso ancora più toccante e profondo di quanto ricordassi.
Forse non un capolavoro assoluto come “C’eravamo tanto amati”, ma uno di quei film girati tutti in un interno, affinché l’eco della Storia e degli eventi affiorasse da fuori, nei quali Scola, insieme agli sceneggiatori Ruggero Maccari e Furio Scarpelli, seppe trasfondere benissimo un certo spirito – senile, malinconico, rassegnato, quieto, asprigno, struggente, fate voi – sul tempo che passa e le strettoie dell’esistenza: in questo caso gli 80 anni di vita del protagonista Carlo, appunto Gassman, divisi in 8 quadri, partendo dal 1906, ciascuno dei quali introdotto da una “carrellata” nel corridoio di casa, dalle parti del quartiere Prati, nell’immaginaria via Scipione l’Emiliano.
Mi hanno colpito tante cose, più di altre volte. Ad esempio, la morte di molti di quegli attori riuniti nell’ampio appartamento borghese ricostruito a Cinecittà, dallo stesso Gassman a Monica Scattini e Carlo Dapporto, da Renzo Palmer e Memè Perlini; alcune delle superbe battute del copione, come “E chi pensa più? Alla mia età solo ricordi” oppure “Ai figli che non danno pensieri si dedicano meno pensieri”; la straordinaria e insensata litigata a tavola tra l’arrabbiato Gassman e il paziente Philippe Noiret, un altro che non c’è più, sui temi del dopoguerra; il ritmo circolare del racconto, che si apre con un’affollata foto di famiglia virata in seppia e si conclude, appunto otto decenni dopo, con uno scatto simile, ma a colori; le inquadrature quasi subliminali disseminate dal regista per far abituare lo spettatore al cambio degli attori chiamati a incarnare gli stessi personaggi nel corso dei decenni.
Ma è soprattutto la scena nel link qui sotto, francamente non pensavo di trovarla in rete, che mi ha fatto riflettere; sarà anche perché ho visto da poco “Marx può aspettare” di Marco Bellocchio. Qualcuno forse ricorderà. Carlo, l’intellettuale carismatico della famiglia, confessa al fratello minore Giulio, un uomo fragile e scombinato, sempre gravato da debiti, di aver finalmente letto, circa trent’anni dopo averlo ricevuto per metterlo subito da parte, un manoscritto fortemente autobiografico, intitolato “Lo sperpero. Diario segreto di un fallito”. Un momento cruciale del film, perché, tra rimorso e ironia, con tempi teatrali perfetti, Scola fa affiorare una dinamica tipica dei rapporti tra fratelli (e sorelle): quel mix di distrazione, accidia, sfiducia che talvolta provoca, alla lunga, enormi risentimenti e insinuanti frustrazioni. La morale? Se c’è, il talento di chi ci sta vicino, s’intende non solo fratelli o sorelle, bisognerebbe saperlo riconoscere e dirlo: meglio se presto, prima che tutto si dissolva nell’offuscarsi della generosità.
Michele Anselmi