L’angolo di Michele Anselmi
Ho parecchie cose di cui pentirmi. Del resto, chi non ha commesso errori nella propria esistenza? Tra questi, diciamo non proprio nella classifica alta, ce n’è uno che ogni tanto mi tormenta. Riguarda Alfredo Bini, il produttore noto, come s’usa dire, per aver “inventato” Pasolini al cinema. Doveva essere il 2001 o giù di lì. Un giorno ricevo una telefonata a sorpresa dall’uomo in questione, non lo sentivo da qualche anno. “O Anselmi, come stai? Viemmi a trovare, vivo al km 107 dell’Aurelia, Hotel Majestic”. Aggiunse che aveva una gamba malconcia a causa di un investimento subito, ma la voce era quella di sempre: squillante, potente, con cadenza toscana, a tratti sfottitoria, sempre entusiasta della vita. Gli promisi che sarei andato a trovarlo presto, per riprendere una sorta di discorso interrotto. Invece non accadde. Vai a sapere perché. Forse, sarà stata la cassa integrazione, ero troppo preso dal rimettere in piedi la mia vita professionale, piuttosto periclitante. Ma di sicuro feci male.
Nove anni dopo, il 16 ottobre del 2010, seppi dalla radio della sua morte, dopo una breve agonia; per tutto quel tempo Bini era rimasto a vivere lì, ospite del generoso proprietario del piccolo albergo dalle parti di Montalto di Castro, Giuseppe Simonelli.
Perché ne parlo ora? Perché solo ora ho letto, grazie all’amico Mauro Fabretti, un libretto smilzo ma gustoso. Titolo: “Hotel Pasolini”, pubblicato dal Saggiatore nel 2018. Sottotitolo: “Un’autobiografia”. Lo firma Alfredo Bini, il volumetto è a cura di Simone Isola e Giuseppe Simonelli: l’uno regista di un bel documentario passato alla Mostra di Venezia, “Alfredo Bini, ospite inatteso”, l’altro, appunto, l’uomo generoso che diede ospitalità a quel signore squattrinato che un giorno gli piombò in albergo.
Quelli del ramo conoscono bene le qualità e i difetti di Bini, livornese verace e colto, vitalista impenitente, molto attratto dalle donne belle e dalle imprese impossibili, sempre preso di mira dalla censura, letteralmente. A suo modo è stato un avventuriero, un imprenditore-artigiano, un anticonformista radicale, un anticipatore non sempre capito, a tratti anche un amabile megalomane. Di sicuro Pasolini non avrebbe girato film come “Accattone”, “Uccellacci e uccellini”, l’episodio “La ricotta” e soprattutto “Il Vangelo secondo Matteo” se Bini, infischiandosene di un parere poco incoraggiante Fellini, non gli avesse dato credito come regista quando nessuno era disposto a dargliene.
Ma il libretto, una sorta di “La versione di Alfredo”, non parla solo di Pasolini, intreccia memorie professionali e personali, successi e disastri nel mondo del cinema, viaggi e tradimenti, fa nomi e cognomi, e naturalmente spunta anche qualche dettaglio sullo sfortunato matrimonio con Rosanna Schiaffino. Nel leggerlo tutto d’un fiato, facendo la tara ma non troppo, mi sono tornati alla mente alcuni episodi di quella che fu, per certi versi, un’amicizia vera, per quanto bizzarra, inattesa, all’insegna di una dimensione paterna.
Nacque tutto dopo un festival di Locarno. Allora lavoravo a “l’Unità” e non mi parve sbagliato riportare, sia pure con le molle, alcuni ruvidi pareri sul cinema italiano che Bini, già commissario straordinario al Centro sperimentale di cinematografia su indicazione di Pasquale Squitieri, mi aveva espresso durante una chiacchierata. Il regista del “Prefetto di ferro” aveva aderito ad Alleanza nazionale, sicché anche Bini passava per “uno di destra”, senza esserlo nemmeno un po’.
A lui, allora 72enne, piacque questo mio fregarmene delle etichette politiche, sicché cominciò a invitarmi la domenica a pranzo in un’enorme villa situata piuttosto in là sulla Laurentina. Viveva lì come “custode” o qualcosa del genere: mi disse che i proprietari, essendo dovuti scappare in Spagna per non so quali questioni con la giustizia, gli avevano lasciato l’uso della dimora, a patto che si occupasse anche di due enormi cani bianchi.
Intuivo che Alfredo si trovava in cattive acque economiche, ma non lo dava a vedere: le carni alla brace erano sempre di prima scelta, il vino pure e una bellissima ragazza poco più che trentenne gli stava accanto, visibilmente innamorata e devota. Non che lui credesse più di tanto alla consistenza di quell’amore, pure tenero ma reso improbabile dalla soverchiante differenza di età.
Alfredo custodiva una passione per gli elefantini, ne aveva di ogni tipo, disposti su un enorme tavolo nel piano sotterraneo della villa, dove aveva sistemato il suo archivio ricolmo di foto, documenti, sceneggiature, lettere, curiosità varie, quasi tutte legate al suo rapporto con Pasolini. L’idea era di donare quel materiale a una Cineteca, ma prima andava riordinato con cura, e serviva qualcuno disponibile a farlo dietro modesto compenso. Nacque un problema tra lui e la persona, una mia amica, che gli suggerii per quel lavoro, e così i rapporti tra noi si raffreddarono.
Fino, appunto, a quella telefonata dal km 107 dell’Aurelia, direi tre anni dopo. All’epoca Bini, che era stato facoltoso e spendaccione, spesso vivendo al di sopra delle proprie possibilità, percepiva una pensione lorda mensile di 412,18 euro. E solo nel 2009, dopo varie traversie ed equivoci da lui definiti “kafkiani”, sarebbe arrivato il vitalizio legato alla legge Bacchelli “per l’intensa e qualificata attività di produttore cinematografico”. Ma durò poco, come s’è visto.
Il capitolo finale del libro, “Parola di Bini”, offre una densa riflessione, quasi filosofica, sulla natura umana, le insidie della vecchiaia, il buio che ci circonda e “la soluzione rappresentata da Dio”. Davvero ben scritto, profondo, per nulla lagnoso, un po’ crepuscolare (Alfredo aveva fatto ottimi studi, sapeva esprimersi bene, era pure laureato in medicina). Il capitolo si chiude così: “In questo mondo ci sono il mare, il cielo, le montagne, i fiumi, gli alberi, le nuvole, la neve, il fuoco, le donne soprattutto, gli altri esseri viventi e la natura tutta. Rimarranno le foto, le immagini, i ricordi. Io resterò fino a quando mi sarà concesso”.
Michele Anselmi