L’angolo di Michele Anselmi 

Direi che il film sia meglio del manifesto ultrapop, anche uno po’ stracult, che lo reclamizza. Ed è già una buona notizia. Passato ieri al Bif&st di Bari e da giovedì 30 nelle sale con Vision Distribution, coproduce la Lumière di Lionello Cerri, “Quando” è il secondo film di finzione diretto da Walter Veltroni. Il primo, “C’è tempo”, mi sembrò artefatto e arzigogolato, quasi che l’autore avesse bisogno di farsi compagnia con le citazioni per non sentirsi solo sul set; quest’altro trova, mi pare, una forma stilistica più compiuta, pur lavorando su spunti emotivi e strettoie esistenziali in linea con un certo mondo “veltroniano”.
Alla base c’è un romanzo omonimo dello stesso Veltroni, uscito nel 2017 con Rizzoli, qui un po’ ritoccato in sceneggiatura, anche nelle date, con l’aiuto di Doriana Leondeff e Simone Lenzi. Ne avrete sentito parlare. La storia immagina che nel 2015 un giovane militante del Pci, tal Giovanni Piovasco, colpito pesantemente alla testa dall’asta di una bandiera il 13 giugno 1984, mentre era a piazza San Giovanni con i suoi compagni per i funerali di Enrico Berlinguer, si risvegli dal coma dopo 31 anni (33 nel libro), e potete immaginare lo spaesamento del poveretto.
Accudito per lungo periodo dalla bella suor Giulia, una monaca che fa jogging in calzamaglia e cappelluccio ascoltando “Buon viaggio” di Cesare Cremonini, il risvegliato si sente subito proiettato in un mondo che non riconosce. Non ci sono più il Pci, il muro di Berlino, nemmeno l’Unione Sovietica, tutto è cambiato, a partire dalle automobili, i suoi coetanei cinquantenni hanno navigatori, telefoni cellulari, computer potenti; ma soprattutto lui non sa che fine abbia fatto Flavia (si chiama così anche la vera moglie di Veltroni), la fidanzatina che forse all’epoca era appena rimasta incinta dopo un rapporto non protetto e adesso fa la doppiatrice, moglie felice del miglior amico di Giovanni ai tempi del liceo “Mamiani”.
Da “La zona morta” al più recente “Good Bye, Lenin!”, ma gli esempi sono infiniti, passando per certi racconti di Cornell Woolrich sulla perdita di sé, l’espediente del coma è un classico del racconto psicologico, un po’ come i viaggi nel tempo o le storie di smemoratezza: permette di giocare con oggetti, abiti, arredi, tecnologie, mode, canzoni eccetera, a patto di estrarne qualcosa che vada al di là della smarrita sorpresa.
Da questo punto di vista Veltroni sfodera un palpito gentile, adoperando il disorientamento del protagonista quel tanto che basta per strappare spesso il sorriso, ma in fondo volendo suggerire qualcosa di diverso, per nulla nostalgico o rassicurante, bene sintetizzato nella confessione finale di Giovanni davanti a una commissione scolastica.
È possibile che chi ha militato nel Pci e ancora rimpiange quelle bandiere al vento storcerà il naso di fronte ad alcune battute di Giovanni, tipo “L’ideologia era sbagliata, gli ideali no” o “Siamo sempre stati per lo strappo dall’Urss” (e qui sembra parlare Veltroni in persona); ma non prenderei tutto sul serio: il film si diverte a opporre “ingraiani” e “miglioristi”, regala un pellegrinaggio sotto le Botteghe Oscure e fa anche una battuta su “l’Unità”, poi chiusa da Matteo Renzi nel 2017.
Difetti? Ce ne sono, sul piano della messa in scena. Per dire: troppa musica, benché firmata da Mauro Pagani, spalmata anche dove dovrebbero “parlare” solo i dialoghi; un’inutile cantatina in auto, tributo a una moda usurata; qualche sogno di troppo, tra Urrà Saiwa, chitarre Stratocaster, juke-box, agendine “Smemoranda”, sapori vintage e il mago Forest; e poi mi sarei giocato meglio l’incontro in sezione con i vecchi compagni, tra i quali il giornalista Pierluigi Battista, mai stato comunista in vita sua…
Ma alla fine, sull’arco di quasi 110 minuti, Veltroni riesce a far capire il senso dell’allegoria realistica: vivere immersi nel passato non ha senso, il mondo non è né peggiore né migliore di allora, è semplicemente diverso, forse potremmo accontentarci, e sarebbe già tanto, di “un mondo senza dittatori, con meno poveri, l’aria buona e le persone più felici”.
Neri Marcorè fa del suo risvegliato un uomo smarrito, rassegnato, un po’ macilento, che come un bambino deve imparare a camminare e prendere le misure: personaggio rischioso (all’inizio doveva essere Claudio Bisio, mi pare) ma tenuto in bilico tra buffo e dolente. Valeria Solarino è la suora moderna e yé-yé, forse turbata da quell’uomo rimasto bloccato nel tempo, Olivia Corsini e Gianmarco Tognazzi sono Flavia e suo marito, sulle prime incapaci, per l’imbarazzo, di farsi vivi, Dharma Mangia Hoods è la figlia che non vorrebbe avere due padri, mentre il giovane Fabrizio Ciavoni incarna con freschezza l’amico Leo, strappato al suo mutismo selettivo dall’incontro con il redivivo. Popolato il parterre delle partecipazioni in amicizia.
PS. Sarà un caso, o forse no, ma ricordo che Veltroni, una volta archiviata la politica attiva, nel 2014 debuttò da regista con un documentario che si chiamava “Quando c’era Berlinguer”.

Michele Anselmi