L’angolo di Michele Anselmi

“Il giorno del mio compleanno mi faccio sempre la stessa domanda. Mia madre, da qualche parte, starà pensando a me?”. Ruota attorno a questo dilemma “Ritorno a Seoul” (non era meglio Seul?), il bel film di Davy Chou che esce giovedì 11 maggio targato I Wonder Pictures in collaborazione con Mubi. Alla base c’è una storia vera, accaduta a Laure Badufle, artista coreana adottata in Francia da piccola, anche se nella reinvenzione cinematografica la protagonista si chiama Freddie Benoît: all’inizio del racconto ha 25 anni, alla fine ne avrà 33, srotolandosi il tutto, sembra di capire, tra il 2013 e il 2021 (c’è pure la pandemia di mezzo).
Un film doloroso e sottile, strutturato in tre parti, anche diverse nello stile, a tratti spiazzante perché non capisci bene che cosa stia succedendo. Lo raccomando specialmente alle donne, ma non farebbe male anche agli uomini vederlo. Con mano discreta, il regista franco-cambogiano pedina l’inquieta francese dai tratti asiatici che arriva a Seul, come attratta da una forza primordiale, invece di andare in Giappone per una vacanza. Da piccola fu adottata da una premurosa famiglia francese, non parla una parola di coreano, ma sente che in quella realtà, così diversa da quella parigina, c’è qualcosa di profondo connesso alla sua esistenza.
Disinibita e insofferente, Freddie fatica a intonarsi ai costumi locali, anzi crea un certo scandalo nelle situazioni corali, ma poi ammette, prima di portarsi a letto, sbronza, un giovanotto invaghitosi di lei: “Dappertutto ci sono segni che non riusciamo a vedere”. Un po’ alla volta la ragazza riuscirà a vederli. Il che significa avviare una rischiosa ricerca sui genitori biologici, in Corea più facile che altrove. Presto incontrerà il padre che s’è rifatto una famiglia in una cittadina di provincia e accoglie “la figlia” di cui si liberò (seguono motivi) come una benedizione. Ma Freddie, che nel frattempo scopre di chiamarsi Joon-he, sembra come anestetizzata, quell’uomo, pure affettuoso ma invadente, spesso ubriaco, non le ispira nulla o quasi; sente semmai di dover cercare la madre, la quale però non risponde alle e-mail spedite dal Centro adozioni.
Il film procede, sul piano temporali, per tre balzi: due anni dopo, cinque anni dopo, un anno dopo…; e ogni volta Freddie ci appare diversa, negli abiti, nelle pettinature, nello stato d’animo, negli atteggiamenti. Nel frattempo ha imparato il coreano e torna spesso a Seul, lavorando per un maturo imprenditore francese nel campo degli armamenti. Il personaggio è disegnato come un enigma: bella e anaffettiva, vulnerabile e tosta, piena e vuota (di sentimenti), come se vivesse in bilico tra l’identità francese, ormai impalliditasi, e quella coreana, difficile da accettare. Lei che suona il pianoforte e sa leggere la musica dovrà, infine, cimentarsi con un’esperienza simile a uno spartito nuovo appena preso in mano.
L’artista visuale Park Ji-Min è perfetta nel ruolo di Freddie, emblema di uno spaesamento esistenziale: anche quando compie gesti inspiegabili, emotivamente crudeli, si finisce con lo stare con lei, con il condividerne la confusione, la sofferenza, l’irresolutezza. Il film è parlato in tre lingue: francese, inglese e coreano. Il doppiaggio trasforma il francese in italiano e appiattisce un po’ la ricchezza degli accenti, meglio la versione originale con i sottotitoli se la trovate. Il finale è aperto alle congetture più diverse, almeno mi sembra: magari dite la vostra, se vi andrà.

Michele Anselmi