“Robert Englund – Metamorfosi di una maschera” presenta una ricognizione a tutto tondo sull’esperienza cinematografica di un attore a suo modo unico. Pubblicato da Shatter Edizioni, il volume ambisce a ritrarre uno dei volti più iconici del cinema horror, esplorandone modi e tecniche attoriali dagli esordi alla consacrazione ottenuta con il personaggio di Freddy Krueger fino ai nostri giorni. Abbiamo incontrato il critico Fabio Cassano, curatore della riuscita pubblicazione.

Come nasce questo progetto per Shatter Edizioni?
Fabio Cassano: In primo luogo vi è stata la constatazione di come mancasse ancora un testo su Englund che non avesse al proprio centro la saga di “A Nightmare on Elm Street”; da questo punto di vista si è ritenuto doveroso esaminare a tutto tondo il lavoro di uno dei più grandi interpreti dell’horror contemporaneo, secondo un approccio con cui trattare elasticamente il cinema di genere e interpellare più da vicino l’arte dell’attore. In ciò hanno avuto un ruolo determinante le lunghe conversazioni con l’amico Fabio Zanello, che ha creduto nel progetto dall’inizio sostenendolo attivamente; da uno di questi brainstorming è nata la prima scintilla dell’idea, poi da me fissata secondo gli assi teorici che ho citato.
A titolo personale, il progetto ha costituito l’occasione per fondere più percorsi della mia formazione; in particolare quello dei performance studies e degli horror studies, quest’ultimo una mia passione da sempre. Non c’era a quel punto che da proporre l’idea a Shatter, la quale ha accettato la proposta senza indugio e ha supervisionato l’operazione da vicino e con piena fiducia.

La stretta collaborazione con Wes Craven e Tobe Hooper, due dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse del New Horror insieme a Romero e Carpenter, ascrivono di diritto Englund nel pantheon del fantastico tout court grazie ad una manciata di personaggi memorabili. Quanto il successo legato a questo genere ha tarpato le ali di un attore dotato di un registro espressivo così ampio?
F.C.: Mi piacerebbe anzitutto ribaltare la domanda, ovvero: quanto il suo successo ha tarpato le ali all’horror? Innegabilmente Englund, col suo Freddy Krueger, ha modellato un nuovo tipo di boogeyman, personalissimo, metafilmico, dalla presenza scenica dirompente; un villain non riproducibile in serie, e con il remake di “Nightmare” se ne sono accorti tutti. Non basta mettergli una maschera, occorre quel particolare lavoro sulla parola, sul movimento, perfino sulla scrittura. Un lavoro come il suo rappresenta un lascito oneroso, che a mio avviso il cinema horror ha saputo raccogliere solo in parte.
Rispondendo più direttamente, la domanda è importante in quanto interpella una nozione di successo primariamente industriale e di mercato: più soldi, più visibilità, più diversificazione dei ruoli. Englund non è certo divenuto una star per come la intendiamo, ma credo che in ciò pesi una sua inclinazione personale: poteva accettare qualsiasi ruolo o vivere di rendita, e invece ha scelto di lavorare con Tobe Hooper, con Renny Harlin, di esprimere il suo estro in progetti indipendenti, anche di allontanarsi da Hollywood in cerca di idee nuove. Ha spaziato molto e senz’altro fra alti e bassi, ma sempre con una personalità unica. In Italia se ne sono accorti Ciprì e Maresco, e proprio il loro “Il ritorno di Cagliostro” dimostra come quello horror sia un immaginario che Englund, con piena consapevolezza del proprio statuto, porta sempre con sé.

In che modo hai affidato i vari saggi ai rispettivi autori? È interessante approfondire, in questo senso, anche la divisione in tre parti che hai scelto di operare: “Gli esordi e la New Hollywood”, “L’incontro col B- Movie” e “L’attore come icona”…
F.C.: Per l’assegnazione dei saggi, ho inteso interpellare le singole sensibilità degli autori. Roberto Lasagna, ad esempio, ha uno sguardo molto poetico sulla New Hollywood; ci sono poi autori come Zanello e Massimiliano Spanu, con un grande intuito per il contenuto politico dell’horror. Altri, come Elisa Torsiello e Chiara Pani, hanno un acume speciale per le contaminazioni e il citazionismo; Giuseppe Cozzolino e Rudy Salvagnini sono enciclopedie viventi dell’orrore, e amanti del b-movie come anche Michele Raga e Edoardo Trevisani. Altre opere sollecitano invece uno sguardo più semiologico, là dove il discorso filmico si fa esplicitamente teorico, ed è per esempio il caso di Marzaduri e Papeo. Altri ancora, come Danilo Arona, sono essi stessi autori e creativi legati a un immaginario preciso. Infine Stephen David Brooks, che con Englund ha lavorato a stretto contatto, poteva offrirci uno sguardo diretto sulla sua prassi altrimenti precluso.
Riguardo alla struttura, era importante fornire al lettore delle coordinate per potersi orientare in una produzione tanto eterogenea. In ciò ho tenuto a evidenziare due punti essenziali: in primo luogo, il Robert Englund che conosciamo e amiamo non nasce nell’horror, bensì nell’alveo di un rinnovamento che il cinema stava attraversando nel suo complesso; in secondo luogo, il suo statuto di icona dell’horror ha influenzato direttamente il cinema successivo su più livelli, sia nella scrittura che nella messa in scena, passando per il mercato; quest’ultimo, naturalmente, ne ha sfruttato l’immagine e la fama di “volto dell’orrore” con grande profitto.

Quali sono i film in cui Englund lascia più il segno? E, in che modo, questi sono rappresentativi del suo percorso?
F.C.: Quanto al modo, direi che trattare la carriera di un artista significa rinarrarne il percorso secondo una visione specifica: nel caso di Englund, è evidente come il sogno, la finzione e la maschera siano elementi cruciali, e secondo questi concetti si possono definire ruoli decisivi. Prima di tutto, naturalmente, c’è la saga di “Nightmare”, una serie che Englund, da grande improvvisatore e mattatore, ha contribuito a plasmare in tutte le sue incarnazioni; su questa linea vi accosterei “Il ritorno di Cagliostro” e “The Mangler”, nei quali le sue doti di attore-autore hanno ricadute dirette sulla costruzione del senso. Personalmente adoro il suo Fantasma dell’Opera, insieme un tributo e una reinvenzione di un’icona per la quale Englund ha davvero scomodato tutto il suo armamentario; o anche il ruolo di Whitey in quel capolavoro che è “Buster and Billie” di Daniel Petrie: un ruolo, visto oggi, inquietante e profetico per ciò che Englund aveva in serbo come interprete. Ci sono poi i suoi ruoli più referenziali, come in “The Last Showing” e in “Behind the Mask”; due film che amo in quanto lì Englund ha saputo giocare in modo geniale con un immaginario che lo interpella in prima persona.