Fino al 22 gennaio al romano Nuovo Cinema Aquila si svolgerà una rassegna sulla cinematografia di Pippo Delbono, un ciclo di proiezioni per ripercorrere opere realizzate dal 2003 al 2011, come Guerra (2003), Grido (2006), La Paura (2009), Amore Carne (2011). Ma tutta l’attenzione è concentrata sul più recente Sangue (2013) – il film da domani viene distribuito autonomamente dalla Compagnia Pippo Delbono in un circuito di sale indipendenti, accompagnato da retrospettive, eventi e incontri. Vincitore del premio Don Chisciotte alla 66/ma edizione del Festival del Film di Locarno, è stato seguito da un’intensa scia di polemiche.

Gian Carlo Caselli quando lo scorso mese di dicembre ha lasciato il vertice della Procura di Torino ha confessato di sentire, alla fine della sua carriera, tutto il peso dell’omicidio del fratello di Peci, “vendetta trasversale orribile e tremenda”.
Il protagonista di Sangue Giovanni Senzani racconta a sangue freddo con particolari e dettagli la pianificazione e l’esecuzione dell’assassinio di Roberto Peci, la sensazione provata nell’uccidere un uomo inerme. “Sapevamo quello che stavamo facendo ma vederlo così era impressionante. D’altra parte era una decisione politica”.
“I conti col passato – ha scritto lo stesso Caselli sul Fatto Quotidiano interrogandosi sull’opportunità di dare voce a Giovanni Senzani – non si fanno affidandosi esclusivamente a chi stava dalla parte sbagliata. Affidandosi a chi confonde la rivoluzione con la “bassa macelleria” praticata dagli attentati terroristici del suo famigerato “Partito della guerriglia”. Oppure affianca il funerale di Moro (la vittima) a quello di Gallinari (il carnefice)”.

Cinema come arte, cinema come verità, una faccia almeno della verità, oscura, dolorosa, lacerante. Il film di Pippo Delbono affonda le dita in una cicatrice, nonostante il trascorrere degli anni, ancora aperta e ne strappa brandelli di carne e Sangue.
Si apre mostrando una città, L’Aquila, sventrata dal terremoto, svuotata dei suoi abitanti, una città di promesse mancate, silenziosa e abbandonata, in attesa che qualcuno la riporti alla vita.
Poi garofani scarlatti e un corteo funebre, tra il nero degli alberi secchi e nudi e una neve candida che tutto copre ma niente cancella, né la memoria né il Sangue.

Ed è la storia di un incontro: quello tra Pippo Delbono, artista buddista, e Giovanni Senzani ex leader delle Brigate Rosse tornato in libertà. Un incontro, avvenuto attraverso il teatro, che intreccia anche le storie di due donne: la madre di Pippo, Margherita, fervente cattolica, ed Anna, la moglie di Giovanni, contraria da sempre alla lotta armata, che lo aspetta per trent’anni, prima nella latitanza poi durante il carcere. Due donne che muoiono a pochi giorni di distanza lasciando i due uomini di colpo soli. I due amici sono insieme a Napoli per l’allestimento della “Cavalleria Rusticana” ancora sangue e morte pur se solo sulla scena, sulle onde delle arie mascagnane. Poi sulle strade di Parigi. E attraverso la morte il film parla di memoria e rivoluzione.

Delbono filma, come nel precedente Amore carne, con il suo cellulare o la sua piccola camera per essere sempre presente, per osservare, per testimoniare momenti strazianti, unici e irripetibili della sua esistenza, gli ultimi giorni di sua madre; ma anche quei momenti unici e irripetibili in cui Senzani decide di raccontare ciò che lui, brigatista non pentito, non aveva mai raccontato prima. Il film è bello, malgrado tutto. E lo squarcio finale del cielo azzurro sulle rovine dell’Aquila ne è l’emblema. Una forza vitale che sboccia ovunque e tutto travolge.

Se c’è un’accusa che si può fare al nostro cinema, alla nostra televisione, alla nostra letteratura è di aver lasciato sempre molto più spazio alle voci dei carnefici rispetto a quelle delle vittime e dei loro familiari. Mi piacerebbe una volta recensire un film, su Aldo Moro, ad esempio, una pellicola, finanziata dalla Rai, che ne raccontasse la vita e il pensiero, che non costringesse i suoi 62 anni in quei 55 giorni di prigionia e sangue. Un film di luce e non di morte. Piacerebbe a me, che ero bambina in quegli anni, che il mio paese all’estero non fosse ricordato per la sue stragi feroci ma per la sua sconvolgente bellezza. Che nessuno potesse più dirmi come un ragazzo appena conosciuto, qualche tempo fa: “Italiana? Voi siete quelli che avete ucciso il vostro presidente!”.

Francesca Bani