La Mostra di Michele Anselmi / 15
Susanna Nicchiarelli è una habitué della Mostra. Presenza assicurata a ogni film che fa. Così, a chiudere un’ideale trilogia su figure di donna rimaste storicamente in ombra rispetto ai protagonisti maschili, dopo “Nico” e “Miss Marx” ha portato in concorso “Chiara”, quinto titolo italiano della selezione ufficiale. Meritava di esserci? Secondo me no. Chiara è Santa Chiara d’Assisi (1194-1253), nata nella nobile famiglia Offreducci di Favarone, allieva e amica di San Francesco, teorica di una vita all’insegna della povertà assoluta, fondatrice dell’ordine monacale delle Clarisse. Il film ne fa una sorta di eroina pop: ribelle, appassionata, indocile e insieme misericordiosa, capace di compiere miracoli suo malgrado e di sfidare cardinali e pontefici per imporre nuove regole contro la ferrea clausura all’epoca riservata alle monache.
Nell’incipit la vediamo camminare all’alba insieme all’amica Pacifica, neanche diciottenne, ancora vestita da facoltosa ragazza. Deve incontrare Francesco per unirsi a quei frati malvisti dalle gerarchie ecclesiastiche. A piedi nudi, coi capelli tagliati e un saio addosso, Chiara aderisce ai precetti francescani con dedizione assoluta, e presto altre giovani donne, conquistate dal suo esempio, si uniranno a lei e alla comunità di San Damiano. Il tutto si svolge tra 1211 e il 1228, cioè tra la fuga dalla famiglia aristocratica, che pure proverà a rapirla, e l’incontro con papa Gregorio IX, che vorrebbe imporle norme di clausura ormai inaccettabili, ossia lo status di badessa.
L’approccio vagamente rosselliniano e la fotografia a luce naturale lasciano subito spazio a una rievocazione di tipo giovanilistico, un po’ fricchettone, quasi da musical: infatti si sprecano balletti, cantatine, suggestioni paleo-femministe, donne in marcia stile “Quarto Stato”; il tutto, dice la regista, per “riscoprire la dimensione politica, oltre che spirituale, della radicalità, il sogno di una vita in comunità senza gerarchie e meccanismi di potere”.
Parlato in un italiano “volgare” con cadenze umbre, del tipo “Appiccia lo foco e monda li funghi” o “i lupi sono come li cani, hanno paura del tortòre”, il film non mi pare una riuscita, spesso i personaggi sembrano figurine, se non santini, nonostante l’impegno profuso dagli interpreti nell’opera di reinvenzione: Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano fanno Chiara e Francesco, e poi ci sono Luigi Lo Cascio, Carlotta Natoli, Paola Tiziana Cruciani, Paolo Briguglia…
Se l’ensemble Anonima Frottolisti fornisce musica medioevale intonata al clima generale, la chiave rock cara a Nicchiarelli esplode nell’epilogo: con Chiara che guarda fieramente in macchina azzannando un pezzo di pane, quasi a rivolgersi allo spettatore, mentre parte “Le cose più rare” di Cosmo. Il primo verso dice: “Ci ho provato, lo giuro / ma non riesco a capire / cosa cazzo è successo / mi sembra di affogare”. Vabbè. Dedicato alla storica Chiara Frugoni, scomparsa pochi mesi fa, il film uscirà con 01 – Rai Cinema.
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Immagino che alla fine arriverà un premio tutto politico, di solidarietà, per il regista iraniano Jafar Panahi, arrestato lo scorso luglio: deve scontare sei anni di carcere comminati da un precedente condanna. Il titolo del suo nuovo film recita “Gli orsi non esistono”, in sintonia con una battuta che echeggia a un certo punto: “Non ci sono orsi qui, la nostra paura dà potere agli altri”. Ne consegue che bisogna ribellarsi, conservare la propria dignità, non farsi calpestare da un regime occhiuto e ambiguo.
In Turchia si sta girando di nascosto un film che forse non è un film: un uomo e una donna iraniani aspettano due passaporti falsi, si direbbe rubati a turisti stranieri e modificati nelle foto, per scappare verso la Francia. La scena è interrotta, non piace allo stesso Panahi che segue le riprese al computer da un remoto villaggio rurale ai confini con la Turchia. Ma anche lui, forse riparato lì per sfuggire all’arresto, ha i suoi problemi con la piccola comunità locale. Un trentenne geloso l’accusa di aver scattato una fotografia che rivela un tradimento, lui giura di non aver fatto nulla del genere, ma la tradizione locale impone una specie di rito pubblico per chiudere “l’incidente”. Paziente e ben disposto verso quella gente, Panahi mostra tutti i suoi scatti, ma non basta ancora allo “sceriffo” locale; e intanto tutto sembra volgere al peggio, sia a Teheran sia in quella piccola comunità.
La doppia storia va letta in una dimensione simbolica, direi metacinematografica, anche se Panahi usa un registro realistico nel raccontare le due situazioni. Il precedente “Tre volti” era venuto meglio, ma la condizione patita dal regista (è previsto anche un flash-mob di protesta sul tappeto rosso) consiglia, forse, una sorta di indulgenza critica. Lo si vedrà targato Academy Two.
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Aggiunge poco o niente al concorso il francese “Les miens”, ovvero “I miei”, che l’attore d’origine maghrebina Roschdy Zem, con l’occhio a vicende autobiografiche e familiari, ha anche diretto. Se il nome dirà poco a noi italiani, il viso è di quelli che non si dimenticano. Qui, sorretto alla scrittura dall’attrice e regista Maïwenn, Zem distilla nella misura aurea di 85 minuti un vivace ritratto di famiglia: tre fratelli, una sorella, mogli, figli, parenti.
L’elemento debole del gruppo è Moussa, appena mollato senza spiegazioni dalla seconda moglie e caduto in una depressione fonda, peggiorata da un trauma cranico in seguito a una caduta. Irascibile e intrattatibile, il cinquantenne litiga con tutti, persino con le figlie, in attesa di un divorzio veloce da concludere via Internet. Zem incarna uno dei tre fratelli, Ryad, il presentatore televisivo di successo: bello, ricco, solitario, egocentrico. Il tosto dialogo con la fidanzata è il momento più bello di un film corale che assomiglia a tanti altri, nell’andamento drammaturgico. Anche qui, purtroppo, si finisce con un balletto sfrenato in casa, rasserenante e sorridente, al suono di “Beggin’” (per fortuna non la versione dei Måneskin). Uscirà con Movies Inspired.
Michele Anselmi