La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 16
Vero, Mario Martone è un habitué della Mostra, alla voce concorso. Solo per restare ad anni recenti: “Capri Revolution” nel 2018, “Il sindaco del rione Sanità” nel 2019, adesso “Qui rido io”. Ma è anche vero che il regista napoletano costruisce film non prevedibili, spesso in bilico tra storia e arte, cinema e teatro; e questo nuovo, incentrato sulla figura di Eduardo Scarpetta (1853-1925), in qualche misura condensa un certo sguardo, tra affettuoso, malinconico e asprigno, su quell’immensa tradizione scenica.
Attore, capocomico, drammaturgo, impresario, figura centrale della “Belle Époque” partenopea tra fine Ottocento e inizio Novecento, Scarpetta fu artista titanico e contraddittorio, a sua modo una “star”. Diventò ricchissimo e influente, ebbe nove figli da donne diverse, alcuni dei quali non riconosciuti, come i fratelli De Filippo: Titina, Eduardo e Peppino. I tre lo chiamavano “zio”, pur sapendo di essere nati dal legame, per certi versi ufficioso, tra il vanitoso divo e la giovane Luisa, nipote della moglie Rosa, a sua volta madre di un figlio avuto dal re Vittorio Emanuele II e riconosciuto dallo stesso Scarpetta. Insomma, una famiglia teatrale piuttosto allargata, diciamo “all’antica italiana”, e “Qui rido io”, secondo i modi della cine-biografia, ma con un preciso punto di vista, ricostruisce alcuni momenti salienti di quella vicenda.
“La forza mia è ‘o pubblico” si vanta l’autore e interprete di “Miseria e nobiltà”. È Toni Servillo a incarnarlo, con un istrionismo ben temperato che corrisponde, immagino, all’espressività originaria del teatrante (ben diverso appare Servillo in “È stata la mano di Dio” o in “Ariaferma”). Quel pubblico, popolare e borghese insieme, lo ricompensò per decenni, anche se il film isola un quadriennio nella carriera scarpettiana, tra il 1904 e il 1908. All’apice del successo, ben installato in una lussuosa dimora ribattezzata “palazzo Scarpetta”, l’uomo commise un passo falso prendendosi gioco del dannunziano “La figlia di Iorio”. La sua parodia, intitolata “Il figlio di Iorio”, venne clamorosamente sabotata la sera della prima da alcuni giovani artisti napoletani decisi a scalzarlo, tra i quali Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Roberto Bracco; e, come se non bastasse, il Vate, che sulle prime aveva dato a voce il consenso, fece causa a Scarpetta e ne nacque un clamoroso processo durato anni. Come finì? Con un’assoluzione. Si mobilitò addirittura Benedetto Croce (il dialogo tra il gran filosofo e il teatrante abbacchiato è di arguta finezza), nell’intento di dimostrare la differenza tra legittima parodia ed esecrabile contraffazione.
Il film, scritto da Martone con Ippolita di Majo, fotografato da Renato Berta e lungo 130 minuti, è un racconto corale, ricolmo di personaggi, figurine, aneddoti, battute fulminanti, “scene madri”, piccole miserie umane e rare nobiltà d’animo, anche canzoni napoletane: tante, secondo me troppe, di sicuro le più orecchiabili, scelte senza scrupolo filologico, quasi a comporre un viaggio sentimentale, a partire da “Indifferentemente” (1963) che apre e chiude il film. Ne esce il ritratto di un artista, poi ampiamente scoperto dal cinema, che seppe incarnare lo spirito del suo tempo, facendo molto ridere e insieme fecondando una seconda dinastia di teatranti, appunto i De Filippo, qui colti da ragazzini e già diversi tra loro per indole e sensibilità. “Noi siamo i fratelli De Filippo e non ci dobbiamo dividere” rivendica il piccolo Eduardo, il preferito dallo “zio”, ma noi sappiamo che le cose purtroppo poi non sarebbero andate così.
Rispetto a un film come “Il giovane favoloso”, che pure si concludeva tragicamente a Napoli, il regista qui ride e gioca in casa, anche nel ricostruire l’atmosfera degli spettacoli, la vita dietro le quinte, l’agio esibito dal “cavalier” Scarpetta, la vocalità dialettale e la gestualità insistita. Ma tutto sembra confluire verso una riflessione agrodolce, a suo modo universale nonostante la ricostruzione minuziosa, sul respiro creativo del teatro, la sua resistenza all’usura del tempo, al variare dei gusti. In fondo Scarpetta decide di chiudere quando, come in un brutto sogno, vede sé stesso, il suo personaggio di Felice Sciosciammocca, fare la medesima fine del Pulcinella di Petito.
Difficile nominare tutti gli attori partenopei chiamati a raccolta: di Servillo s’è detto, ma s’inseriscono bene nella partitura, pesco tra i tanti, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Antonia Truppo, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Cristiana Dell’Anno, Lino Musella, Eduardo Scarpetta (è il trisnipote dell’originale). “Qui rido io” sarà nelle sale dal 9 settembre, producono Indigo Film e Rai Cinema.
Michele Anselmi