L’angolo di Michele Anselmi | Per Cinemonitor
Dev’essere stata una faticaccia, per l’irpino e ispido Ettore Scola, 82 anni compiuti a maggio, salire fino al al Lido di Venezia per presentare “Che strano chiamarsi Federico”, il suo omaggio a Fellini nel ventennale della morte. D’altro canto, l’uomo un po’ ci fa, magari anche per tenere fede all’immagine del cineasta cinico/sarcastico, restio a chiacchierare per ore coi giornalisti, stanco di spiegare tutto. Ma il suo film, fortemente voluto da Cinecittà-Luce, era pronto per stare fuori concorso alla Mostra; in più gli davano il premio Jaeger-LoCoultre Glory to the Filmmaker 2013; e, come se non bastasse, il presidente Giorgio Napolitano ha voluto essere presente in Sala Grande, spargendo infine parole di grande elogio (su Scola e Felini), per festeggiare l’amico regista in un tripudio di applausi.
Non sorprende, però, che Scola abbia affrontato il tour de force mediatico sfottendo un po’ tutti, pure se stesso. Perfino Eugenio Scalfari è finito affettuosamente nel mirino per aver scritto su “la Repubblica” dopo aver visto il film: «Alla fine ho pianto come di rado mi capita». Alla sua maniera sorniona, il regista di “C’eravamo tanto amati”, ha replicato così: «Non credevo di aver fatto “Catene” (un melodrammone di Matarazzo, ndr). Tutti a dirmi, invece, di aver pianto come fontane. Non era un nostro intento. C’è da piangere per chi non lascia nulla dietro di sé. Ma per Fellini?». E ancora, prendendosi le pause giuste: «La nostalgia e il rimpianto non sono il mio forte. Però è vero: dopo gli 80 viene una sorta di debolezza lacrimale, ci si intenerisce anche per una cotoletta fatta bene. Non è autentica emozione, è una secrezione lacrimale…».
In realtà il film è anche toccante, diffonde una certa tenerezza su un mondo cinematografico scomparso, ma intonandosi all’ironia ribalda e sbarazzina che conservò l’amicizia tra i due registi. Come forse ricorderete, Scola, dopo “Gente di Roma” del 2003, aveva deciso di chiudere col cinema. Per saggezza, stanchezza, un pizzico di superbia, rifiuto di certe logiche di snervante attesa, mancanza di ispirazione, fare il nonno, rileggere i classici latini. Pure per «non chiudere la carriera in bruttezza». Ci ha ripensato. «Venivo da alcuni anni di beata pensione, e invece per il ventennale della morte di Federico… Anche se è stato un lavoro facile. Non ho fatto quasi niente: le mie figlie Silvia e Paola scrivevano, i miei cinque nipoti recitavano, Roberto Cicutto si è occupato di tutto, anche dei caffè sul set».
Naturalmente scherza, Scola, perché “Che strano chiamarsi Federico” è qualcosa di più di una cosetta su commissione. Lui la definisce, sminuendola, «un albumetto di fotografie, frasi, ritagli, foglietti, caricature, anche fiori secchi, inclusa una mosca schiacciata trovata in un libro». Ma, solo a scorre e il reparto tecnico, trovi i nomi del direttore di fotografia Luciano Tovoli, dello scenografo Luciano Ricceri, del compositore Andrea Guerra. Più attori come Vittorio Viviani, Sergio Rubini, Antonella Attili e due esordienti come Tommaso Lazotti e Giacomo Lazotti, nipoti del regista, nei panni rispettivamente di Fellini e Scola giovani.
A proposito: il titolo, “Che strano chiamarsi Federico”, viene da un verso di García Lorca che sentiamo in spagnolo sui titoli di testa: «Entre los juncos y la baja tarde / !qué raro que me llame Federico!». Ma la citazione poetica è solo una scusa per ricordare l’amico riminese attraverso un film che intreccia scene di finzione, bianco e nero e colori, materiale di repertorio, immagini fortemente evocative: il tutto girato in cinque settimane nel mitico Studio 5 caro a Fellini, per un costo totale di circa 2 milioni e 200 mila euro.
In effetti, uno strano cine-manufatto firmato da un devoto ammiratore e amico. Scola ne parla come di «un film breve, forse un po’ cubista, fatto di frammenti e impressioni sparse». Gli hanno chiesto, a Venezia, se non sia un po’ il suo “Amarcord”, e certo quel narratore spiritoso e soave che si vede in “Che strano chiamarsi Federico” ricorda un po’ l’omologo nel capolavoro felliniano. Ma la risposta è telegrafica, anche caustica: «Non amo i paragoni, specie quelli a mio svantaggio».
“Che strano chiamarsi Federico”, nelle sale da oggi targato Bim, parte di spalle, con la sagoma di Fellini – è una controfigura – ripresa in controluce, in riva a un mare proiettato sullo schermo, all’albeggiare del giorno, nella sua sedia da regista, cappello a quadretti, sciarpa rossa, cappotto inglese, il megafono sulla sabbia. Da lì si torna indietro al 1939, quando quel riminese smilzo e pieno di capelli, neanche ventenne, arrivò a Roma. Ecco il teatrino d’avanspettacolo dell’epoca fascista, dove i giovani autori di rivista Fellini e Ruggero Maccari portano le rispettive fidanzatine sperando di raccogliere applausi, invece il pubblico lancia ortaggi, uova e gatti morti. Ecco la redazione del giornale umoristico “Marc’Aurelio”, fucina di talenti come Steno, Metz, Marchesi, Attalo, dove il ventisettenne Fellini e il sedicenne Scola si conoscono nel 1947. Ecco l’inventato Caffè Giardino di via Veneto, dove l’insonne Fellini trascina i suoi amici a tirar tardi chiacchierando di cinema e ragazze. Ecco le auto lussuose dove Fellini carica Scola per immergersi nella notte romana. Incontreranno, nel film, un “madonnaro” orgoglioso che ribadisce la superiorità della pittura rispetto al cinema, una battona gentile alla Cabiria che vorrebbe trasferirsi a Senigallia col fidanzato che forse le ha rubato tutto.
«Fellini è un po’ come Leopardi. Non tutti hanno visto i film dell’uno o letto le poesie dell’altro, ma tutti siamo stati condizionati dai loro sentimenti poetici» spiega Scola. Per il quale Fellini non era né qualunquista né maschilista, ma un adorabile Pinocchio da premiare con un ideale Leone d’oro alla bugia. E infatti nell’epilogo «con un raggio di sole» esce dalla bara per correre e nascondersi tra le scenografie di Cinecittà, inseguito da due carabinieri col pennacchio.
Michele Anselmi