L’angolo di Michele Anselmi
All’inizio di “La caduta dell’Impero americano” echeggia una battuta: “L’intelligenza non è un vantaggio, è un handicap”. Tuttavia i fatti seguenti si incaricheranno di dimostrare esattamente il contrario. Naturalmente alla maniera buffa di Denys Arcand, il 77enne regista canadese, ramo francofono, che con questo nuovo film chiude la trilogia cominciata con “Il declino dell’Impero americano” (1986) e proseguita con “Le invasioni barbariche” (2003).
A differenza dei precedenti, “La caduta dell’Impero americano” utilizza gli stilemi di certo cinema hollywoodiano d’azione, con tanto di rapine e sparatorie; e anche lo spunto sembra provenire da classiche storie noir: il malloppo frutto di un colpo che finisce nelle mani sbagliate. Ma Arcand è troppo abile per farsi risucchiare dal “genere”, che invece usa come pretesto per chiarire, strada facendo, il suo punto di vista sulle attuali sorti dell’Occidente, con un particolare riferimento al capitalismo di conio finanziario, ai trucchi per esportare i capitali, alla voracità del sistema bancario e creditizio.
Trattasi, a suo modo, di parabola, forse vagamente marxista, anche se al cineasta québecois piace confondere le idee dello spettatore, smentendo il sospetto del sermone moralista, arpeggiando sulla tastiera del pamphlet filosofeggiante ben piantato nel plot arguto. In ogni caso, il film, benché lungo più di due ore, si fa vedere tutto d’un fiato, proprio per il tono impertinente che lo anima, nel mix di crudeltà e citazioni, di stereotipi e originalità.
Siamo a Montréal, dove il fattorino Pierre-Paul con laurea in filosofia sta mollando la fidanzata bancaria, che non ama, tirando in ballo Blair, Berlusconi e Trump nonché Aristotele, Althusser e Heidegger. Parole in libertà, sembrano; lo sfogo di un intellettuale frustrato piegato da una sorta di irresolutezza esistenziale. Ma di lì a poco, facendo una consegna, assiste a una ferocia sparatoria e, passato lo shock, ruba due sacconi ripieni di banconote di grosso taglio rimasti in terra. Perché lo fa? Perché, diversamente da quanto si pensa, i soldi danno la felicità. Infatti il giovanotto si rivolge subito alla escort più costosa ed esclusiva della città, un angelo di ragazza che gira con l’autista e vive in cima a un grattacielo. Decisione rischiosa, infatti due poliziotti da telefilm americano, un maschio e una femmina, annusano al volo che qualcosa non torna nella vita del fattorino. Il quale, pur credendosi intelligente, in effetti si comporta da pirla. Fino a quando, con l’aiuto di un vecchio motociclista dotato di codino e il “chiodo”, appena uscito di galera, non passerà al contrattacco…
Come nei precedenti capitoli della trilogia, il titolo non va preso alla lettera. La polemica ideologica nei confronti del Mondo Americano non risparmia la filiazione canadese, messa ugualmente alla berlina; semmai adotta le forme di una commedia d’azione, sarcastica e paradossale, per mettere in scena un enorme raggiro al sistema capitalistico usando le stesse armi di quel sistema. Tra mosse, furbizie e spiazzamenti.
Arcand frulla tutto nella sua “Stangata”: scandali sessuali e homeless eschimesi, torture naziste e tenerezze sentimentali, senza dimenticare Wittgenstein, di cui si cita, finalmente in modo non peregrino, la famosa settima proposizione del “Tractatus”, quella che dice “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (meglio: “Di ciò che non puoi spiegare meglio non parlare”).
Attori giovani come Alexandre Landry e Maripier Morin si mischiano a vecchie conoscenze come Rémy Girard e Pierre Curzi, in un clima strafottente, pure solidale e fiabesco, che invita all’applauso finale. Nelle sale da mercoledì 24 aprile con la benemerita Parthénos.
Michele Anselmi