L’angolo di Michele Anselmi

Lo confesso, ho sempre avuto una passione per Elvis Presley. Sin da bambino, vai a sapere perché. Ricordo di aver comprato, forse nemmeno decenne, un albo con le fotografie dei suoi primi film, peraltro mai visti, per sfuggire alla noia di certe estati afose passate a Castelleone di Suasa, nelle Marche, lontano dal mare agognato.
Chissà che fine ha fatto quel volumetto. M’è tornato in testa vedendo il bel documentario del 2018 “Elvis Presley: The Searcher” su Netflix: 215 minuti a firma di Thom Zimny, zeppo di interviste, testimonianze, immagine inedite, retroscena, curiosità, scene di concerti. Ne esce un ritratto molto interessante, sfaccettato e non convenzionale, di questo giovanotto di Tupelo, Mississippi, che diventò indiscutibilmente “The King”, almeno in alcuni periodi della sua travolgente carriera, finita il 16 agosto del 1977, nella sua magione di Memphis detta “Graceland”, a soli 42 anni.
“The Searcher” nel senso che Elvis Aaron Presley, detto anche “the Pelvis” per i suoi movimenti sensuali del bacino che mandavano in sollucchero le ragazze, non è stato solo una perfetta “icona americana”, nel bene e nel male, nei trionfi e nelle cadute, ma anche un musicista capace di sperimentare, di innovare, di muoversi tra blues, bluegrass, gospel, country, rock and roll, pop e rhythm and blues inventando un modo tutto personale, a tratti unico, di cantare e proporsi.
In tanti hanno fatto un po’ di moralismo sul suo malinconico epilogo: gli abiti vistosi pieni di lustrini e mantelline, i basettoni, l’aumento di peso che straziò la sua bellezza un po’ angelica, la dipendenza dagli eccitanti e dai barbiturici (per stare sul palco e poi per dormire), il suo controverso incontro con Nixon, le pistole, i mille imitatori e sosia, eccetera.
Il film offre uno sguardo diverso sulla parabola umana e artistica di questo artista nato povero nel profondo Dixie americano, presto finito nelle grinfie di un abile manager, il famoso “Colonnello Parker”, che lo spinse a girare decine di film perlopiù inutili e bruttarelli, impedendogli di fare tournée all’estero, spesso inchiodandolo a un ruolo, a un cliché, a uno sfruttamento esagerato della propria immagine di ex “ribelle” convertito alle buone maniere.
Senza nulla togliere alla rivoluzione, tra musicale, politica e sociale, rappresentata da Bob Dylan e dai Beatles, ho sempre visto Elvis come l’incarnazione di una dolorosa, luccicante e desolata “tragedia americana”: per questo, ancora oggi, mi piace sentire le sue canzoni, leggere di lui.
Nel 2003, durante un lungo viaggio negli Stati Uniti, volli ad ogni costo visitare la sua dimora alle porte di Memphis. Pensavo fosse una gigantesca “antebellum mansion” in stile “Via col vento”, invece era più piccola e discreta nelle dimensioni, ogni stanza arredata in modo diverso, inclusa la mitica “jungle room” nella quale Elvis registrò per la Rca il suo ultimo disco. Dappertutto, anche sulla coda dei suoi due aerei, c’era stampato TCB. Non sapevo che stesse per “Take care of business”: significa “prenditi cura degli affari”, ma anche qualcosa di più intimo e profondo, squisitamente americano. Qui un link per saperne di più, se interessa.

Michele Anselmi