L’angolo di Michele Anselmi
Buon ultimo tra gli “westerner”, solo da pochi giorni ho Paramount+, sto vedendo “1883”, il primo dei due antefatti, l’altro è “1923”, della fortunata serie “Yellowstone” con Kevin Costner. In tanti me ne avevano parlato bene: avevano ragione. L’assenza di cine-star ingombranti, a favore di attori come Sam Elliott (al cinema quasi mai protagonista) e Tim McGraw (nella vita cantante country), rendono questa miniserie in dieci puntate una delle cose migliori scritte da Taylor Sheridan, l’inventore di tutto il “brand”, e dirette dal fedele Ben Richardson.
Il western, ripeto, è una cosa seria, anche in forma televisiva, come sappiamo sin dai tempi dell’ottima serie “Lonsesome Dove”, 1989, protagonisti Robert Duvall e Tommy Lee Jones; per questo non parlatemi più, vi prego, di “Django. New Babylon” che si può vedere in questi giorni su Sky, per la regia di Francesca Comencini (ho già detto la mia). Ma “1883” ha qualcosa di speciale, in più, anche rispetto a illustri precedenti, secondo me: per la scrittura ispirata, per la scelta accurata delle facce e dei corpi, per la cura nell’ambientazione, per quel mix di epico e feroce, romantico e funereo, per i precisi riferimenti storici.
Per dire: il secondo episodio parte con una foto autentica in bianco e nero, scattata all’indomani della sanguinosa battaglia di Antietam, Maryland, 17 settembre 1862, vinta dai “nordisti” nel cuore della Guerra civile americana (solo noi la chiamiamo “di secessione”). Bene, lo stesso scatto diventa a colori, quasi pantografato, e si anima di personaggi: uno dei quali è l’ufficiale “sudista” James Dutton, lacero e miracolosamente vivo, che si aggira come in trance tra tutti quei cadaveri. Dietro di lui si profila una colonna di soldati blu, scende da cavallo un generale, forse George McClellan, si avvicina al nemico sconfitto, destinato a un campo di prigionia, e sembra quasi consolarlo. “Capisco” sussurra. All’improvviso, sotto la barba e il cappellone, riconosci Tom Hanks in partecipazione speciale. Due minuti o poco più, ma che scena!
Tutto “1883”, almeno nelle puntate che ho visto, sfodera questi picchi. Sheridan e Richardson hanno trovato qui, ancora più che in “1923”, dove la presenza di Harrison Ford e Helen Mirren talvolta suona divistica, un tono perfetto; nel raccontare come il progenitore di John Dutton III, cioè Costner, s’insediò nel selvaggio Montana per farvi nascere il ranch poi chiamato “Yellowstone”, i due autori allestiscono un’epopea western che non indora la pillola, non consola, non rassicura.
Tutto gira attorno a una carovana di immigrati tedeschi, senza armi e cavalli, lontani dalla vecchia Europa e incapaci di difendersi, guidata verso le “alte pianure” da due agenti della Pinkerton a pagamento; ad essa si è aggiunto Dutton, appena raggiunto dalla numerosa famiglia arrivata dal Tennessee in treno a Fort Worth, Texas.
La trovata migliore consiste nello sguardo adottato: che è quello di Elsa Dutton, la figlia appena ventenne, bionda, carina e audace, a suo modo già una “cowgirl”, la cui voce narrante, pensieri e riflessioni, scandisce gli eventi spesso luttuosi. “Perché fare un mondo di tali meraviglie per poi riempirlo di mostri?” si chiede la fanciulla nel rivolgersi a Dio, guardando un tramonto mozzafiato e forse sapendo che la morte, o qualcosa del genere, è in agguato (incipit prima puntata).
Inutile che vi stia a raccontare che cosa succede, puntata per puntata: in quella natura ancora incontaminata si celebra un rito storico di passaggio, nel quale ciascuno degli “attori” – vaccari, ex soldati di entrambi i fronti, immigrati europei divisi tra loro, affaristi/capitalisti, indiani chiusi nelle riserve, banditi crudeli e sceriffi senza scrupoli – deve misurarsi con lo Spirito del Tempo.
Di Sam Elliott, nei panni del baffuto capocarovana, ho già detto nei giorni scorsi, Tim McGraw non sembra una star della country-music prestato alla cinepresa nel ruolo del futuro ranchero, sua moglie Margaret ha il piglio moderno di Faith Hill, il sergente afroamericano incarnato da LaMonica Garrett introduce un elemento tutt’altro che marginale, l’indocile Elsa resa benissimo da Isabel May, ricrescita dei capelli a parte, in fondo è la vera animatrice della tragica transumanza.
Michele Anselmi