L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Lettera 43

Andrea Segre, il trentottenne regista veneto di “La prima neve”, il film passato alla recente Mostra veneziana e da giovedì 17 ottobre nei cinema italiani, è felice e arrabbiato allo stesso tempo. Felice perché in quattro giorni, con soli 28 schermi, “La prima neve” ha incassato 92.000 euro, con una media a copia di 3.063 euro, cioè un gradino sotto il molto strombazzato “Una piccola impresa meridionale” di Rocco Papaleo. Arrabbiato perché «siamo alla guerra tra poveri». In che senso? «Ci sono centinaia di sale irraggiungibili dai film d’autore, sono spazi di potere gestiti con cura. In sostanza, i gusti delle persone sono predeterminati in modo antidemocratico. Nessuno sa che la gente va al cinema e trova ciò che decidono tre persone. Registi come me devono farsi la guerra per affacciarsi a quelle poche sale disponibili, meno di 400, perché le altre 3.200 sono tutte occupate, quasi militarmente».

“La prima neve” porta lo spettatore dalle acque stagnanti di Chioggia, dove era ambientato “Io sono Li”, alle montagne impervie della Val dei Mocheni, in Trentino. Ma non muta il tema, caro a Segre: un dialogo costante tra documentario e finzione, tra silenzio e parole, tra persone/personaggi che vengono da mondi lontani, a prima vista inconciliabili. Il nero Dani è finito lì dal Togo, imbarcato su una delle tante “carrette del mare” partite dalla Libia nell’aprile 2011. La moglie morì partorendo una bambina che lui non sa amare. Il piccolo Michele di dieci anni ha perso il padre in circostanze misteriose, e ora custodisce un’irrequietezza che né la madre Elisa né il nonno Pietro sanno interpretare, lenire. Scommettiamo che solo dall’incontro inatteso tra lo straniero di colore e il bambino di montagna verrà fuori qualcosa di buono per entrambi?

DOMANDA. Lei insiste con le storie di immigrazione e di integrazione. Eppure i produttori considerano il tema “veleno da botteghino”.

RISPOSTA. Lotto costantemente con l’idea che l’immigrazione sia una cosa di nicchia. Io parlo della nuova Italia, piaccia o non piaccia gli stranieri stanno modificando le identità dei nostri luoghi.

D. Sia più chiaro.

R. I pescatori di Chioggia non sanno cosa faranno domani, il bambino di montagna difficilmente seguirà le orme del nonno falegname. Tutto ciò si scontra con una novità: 5 milioni di persone di origine straniera che portano la propria identità e contribuiscono a modificare la nostra. Insieme alla loro.

D. Non la fa un po’ troppo facile?

R. In Italia il fenomeno immigrazione viene visto, da anni, come un problema a parte, che modifica la società solo in chiave di criminalità diffusa. O al massimo come una questione di geografia umana da ridefinire.

D. All’estero invece?

R. Il tema della “nuova Italia” è visto con grande interesse. “Io sono Li” è stato distribuito in 45 Paesi, mi chiamano a parlare dappertutto, non sono miopi come tanti di noi.

D. Che cosa pensa dei funerali senza bare a Lampedusa? Il sacerdote eritreo Mosè Zerai li ha definiti «solo una beffarda passerella».

R. Concordo. I funerali senza bare rientrano nella confusione nel gestire le cose. Al centro della storia, della tragedia, non si pongono gli esseri umani, ma solo l’effetto mediatico. Queste esequie senza i corpi significa che ci interessa esclusivamente il consumo comunicativo.

D. Parole dure, forse troppo, non crede?

R. Guardi, la mia posizione è semplice. Un ministro dell’Interno come Angelino Alfano, il politico che il 4 ottobre scorso è uscito dall’hangar con 93 bare per confessare «Non ho mai visto niente del genere in vita mia», un attimo dopo avrebbe dovuto dimettersi. Su consiglio del premier Enrico Letta.

D. Non è successo, evidentemente.

R: Infatti è la dimostrazione di come non abbiamo capito o vogliamo non capire. Invece di affrontare la dimensione reale del fenomeno migratorio, con le giuste misure, trasformiamo tutto in merce mediatica. E lo dico con chiarezza statistica.

D. Faccia dei numeri, così capiamo.

R. Dal 1996 a oggi, da quando sono cominciati gli sbarchi a Lampedusa, sono arrivati circa 300.000 mila persone, compreso il lato Ionio. Di queste, almeno 20.000 sono morte. Cifre simili dicono che il fenomeno doveva essere affrontato per tempo, con misure non demagogiche.

D. Perché parla di demagogia?

R. Negli anni Novanta gli “invasori” erano albanesi, romeni e marocchini, considerati tutti ladri, spacciatori e lenoni. Lo sa come abbiamo risolto il problema albanese? Con l’ingresso libero e il silenzio. Tra il 2002 e il 2011 sono arrivati ben 300.000 albanesi, ben più degli africani.

D. Questo per dire…

R. Mi dia retta: è una pura questione di gestione mediatica, specialmente sul piano elettorale.

D. Torniamo al film. La frase più citata è quella detta dal nonno silenzioso e burbero, chiuso nel sue rude maso di montagna…

R. Già: «Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme». Una frase nostalgica, scandita da un vecchio che sente la vita finire e si affida all’odore del legno e del miele. Le arnie devono essere fatte di abete per accogliere le api.

D. Fuor di metafora?

R. Quelle parole, nel corso della storia, perdono il loro valore nostalgico e vengono di fatto reinventate dagli eventi: diventano un messaggio per Dani, l’africano che vuole scappare e invece…