Simin: “Suo padre, Vostro Onore, ha l’Alzheimer, non sa nemmeno che lui è suo figlio, non sa chi ha intorno, che differenza fa per lui. Lui forse lo sa che tu sei suo figlio?”

Nader: “Però io lo so che è mio padre

Ecco uno tra i tanti bei dialoghi del film di Asghar Farhadi “Una separazione”, con il quale il regista iraniano ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero 2012.

Ora, così come ci spiega Pietro Chiodi nella sua prefazione ai “Sentieri interrotti – Holzwege” di Martin Heiddeger (ed. Nuova Italia, 1968), : “[…] ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra l’altro […]”, così anche i personaggi dei film di Farhadi si muovono come il pensiero umano, errando e sviando, senza una meta precisa, e il risultato finale è un fitto intrecciarsi di parole, pensieri, bugie, verità svelate, verità nascoste, per ritornare ancora una volta alla menzogna.

Il cinema iraniano moderno nasce alla fine degli anni Ottanta, dieci anni dopo la presa del potere dell’ayatollah Khomeini; gli scontri sono quelli tra i “tradizionalisti”, legati esclusivamente ai princìpi religiosi, e i “moderati”, rivolti maggiormente ad una apertura alla modernità. La produzione cinematografica è strettamente controllata e sottoposta a censura nel suo iter verso il prodotto finale, così che essa può essere approvata in una precisa fase di produzione ma bloccata in una successiva; nella stessa maniera ogni film straniero che entra nel paese è rigidamente controllato e selezionato in base ai precetti morali e religiosi.

Per capire la complessità della cinematografia iraniana, basti pensare come molti dei registi emergenti debbano lavorare all’interno di un istituto per l’educazione dei bambini: il lavoro con i bambini fa sì che essi non si trovino ad affrontare altre tematiche quali quelle riguardanti il sesso o l’erotismo  e che in questo modo possano evitare qualsiasi censura.

Ma dobbiamo anche ricordare come invece alcuni temi trattati, quali quello della condizione femminile nei paesi islamici, abbia portato registi come Jafar Panahi, con il suo film del 2000 “Il cerchio”, alla censura e al carcere.

Nel contesto della battaglia per la libertà delle donne, contro l’intolleranza religiosa e il razzismo,  spicca il caso del ministro della cultura l’ayatollah Mohajerani, che per essere stato il maggior protettore dei registi progressisti iraniani, in seguito ad una intensa campagna intimidatoria, è stato costretto a dimettersi.

Più volte sono stati delineati paralleli fra la produzione cinematografica iraniana di qualità e il cinema neorealista italiano; punti in comune risultano senz’altro essere l’uso di attori non professionisti, quello dei bambini, scene girate per strada, l’uso ridotto della colonna sonora, la rappresentazione delle realtà sociali dei più deboli; ma è anche vero che i cineasti iraniani, pur trattando temi e problematiche attuali che accomunano il loro fare espressivo, risultano poi essere profondamente diversi tra loro.

In “Una separazione”, Simin vuole divorziare dal marito Nader; la donna vuole abbandonare il paese con la figlia Termeh, ma Nader non vuole abbandonare il vecchio padre malato di Alzheimer. Quando Simin si trasferisce dalla madre non seguita dalla figlia che resta con il padre, Nader assume Razieh per badare al vecchio padre mentre lui si reca al lavoro.

Ma Razieh è incinta e dopo essere stata investita da un’auto si reca dal medico, lasciando il padre di Nader solo in casa e legato al suo letto. Razieh perderà il bambino e tutti finiranno in tribunale ognuno a proclamare la propria innocenza e a difendere le proprie verità.

Nelle scene iniziali in cui la coppia si trova di fronte al giudice per la separazione,  la figura del giudice del quale sentiamo la voce ma che non vediamo, corrisponde allo spettatore; il nostro sguardo è il suo ed è così che noi stessi qui diveniamo giudici (non dimentichiamo che in Iran il divorzio è consentito: l’uomo può richiederlo senza dare particolari motivazioni, per la donna si innesca una procedura particolarmente complessa).

Nel cinema di Farhadi, le questioni politiche e religiose, quella femminile, vengono affrontate in maniera metaforica, il cineasta “sfiora” delicatamente le problematiche del suo paese, comunicandoci “tra le righe” il suo pensiero, il suo messaggio;  i personaggi femminili, talvolta più lungimiranti di quelli maschili, appaiono però sempre avvolti nel loro hijab e spesso dietro ad una grata.

Ma, a differenza di quanto molti credano, nel Corano non si trova traccia del fatto che la donna sia costretta a coprire il capo con un velo se non addirittura l’intero corpo, l’importante è che l’abbigliamento risponda alle regole della pudicizia:

E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle e si coprano i seni d’un velo” (Corano, XXIV).

Ed ecco che le scene vengono girate da una nervosissima camera a mano che si sposta tra spazi chiusi e angusti, interrotti da porte, finestre, vetri semi-trasparenti. La tensione, che scaturisce da questa tecnica e dai dialoghi incalzanti tra i personaggi, è davvero sconcertante, là dove menzogna e verità si sovrappongono alternativamente andando a costituire quello che è il vero spessore della storia.

L’aspetto più interessante di questo modo di svolgere il racconto è quello per il quale se in un primo momento ci stiamo appropriando di alcune certezze, immediatamente dopo assistiamo inermi allo sgretolarsi delle stesse, cedendo il posto al dubbio e agli interrogativi che costituiscono l’individuo e i rapporti umani.

Anche il solo titolo del film, così semplice nella sua formulazione, è affilato quanto la lama di un coltello e ferisce quanto feriscono le frasi non dette, le omissioni, le menzogne. Anche alla fine del film, quando all’adolescente Termeh toccherà decidere davanti ad un giudice se vivere con Simin o Nader – e ancora una volta il nostro sguardo corrisponde a quello del giudice e della telecamera -, sia i genitori che noi spettatori rimarremo invano in attesa della sua risposta, e ancora una volta la lontananza tra loro e l’estraneità consolideranno quella barriera creata sin dall’inizio; e questo silenzio agghiacciante continuerà ad accompagnarci sui titoli di coda.

Anche nel precedente “About Elly” del 2009, premio per la miglior regia a Berlino, Farhadi affronta trasversalmente le stesse tematiche di “Una separazione”, velando le questioni sociali, politiche e religiose con un fatto di cronaca, inoltrandosi contemporaneamente nella complessa individualità umana, seppure quest’ultimo film appaia ancora in parte “acerbo” rispetto a “Una separazione”.

Onorina Collaceto