L’angolo di Michele Anselmi

Su Sky è appena tornato “Perry Mason”. Altre otto puntate, a distanza di oltre tre anni dalla prima stagione. Matthew Rhys, Juliet Rylance e Chris Chalk di nuovo nei panni del mitico avvocato penalista, della sua assistente/collega Della Street (lesbica) e del collaboratore Paul Drake (afroamericano). Stavolta si parte dal 1932, naturalmente a Los Angeles, in un clima fosco, parecchio “hard boiled”, che sta, di nuovo, tra Dashiell Hammett, Raymond Chandler e James Ellroy, con una punta forse di “Chinatown”, che non guasta. La prima puntata di questa nuova serie parte con un laborioso ma fluido piano sequenza di diversi minuti, molto cinematografico: fateci caso. E la vicenda, ricca di colpi di scena, risulta abbastanza appassionante: politica, affari, razzismo, sesso perverso, senso di colpa, ingiustizie sociali, jazz e blues. Confermo quanto scritto nel settembre 2020 (qui sotto il mio pezzo di allora): se per voi Perry Mason è solo il corpulento Raymond Burr, allora meglio non provare proprio a vedere questo ispirato all’originale letterario: più tormentato, idealista, infiacchito dalle disgrazie ma capace di reagire. Altrimenti vale la pena.
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■ di Michele Anselmi per Siae.it (21 settembre 2020)
Dimenticare Raymond Burr, Barbara Hale e William Hopper; dimenticare quelle 271 puntate tv girate tra il 1957 e il 1966; dimenticare quel bianco e nero smaltato, quegli abiti perfetti e ben stirati, quelle riprese in tribunale. Su Sky, ma la produzione è Hbo e si capisce per il gran numero di nudi, amplessi e dettagli raccapriccianti, si può vedere il nuovo “Perry Mason”, che poi sono otto puntate di circa un’ora l’una, pensate da Tim Van Patten e prodotte da Robert Downey Jr. con sua moglie Susan.
Potremmo definirlo un “prequel”, io preferisco dire antefatto, visto che siamo proiettati oltre vent’anni prima, tra il 1931 e il 1932, sempre a Los Angeles. Del resto il primo romanzo di Erle Stanley Gadner incentrato sul mitico avvocato uscì nel 1933, si chiamava “Perry Mason e le zampe di velluto”.
Consiglio a chi è poco curioso, o fatica a tenere a freno la nostalgia, di non provare nemmeno a vedere questo nuovo “Perry Mason”: coloratissimo, ricolmo di affondi psicologici e situazioni scandalose, , più simile a una storia hard-boiled di Dashiell Hammett o Raymond Chandler che a un dibattimento dentro l’aula di un tribunale. Anche se, strada facendo, si precisa il clima “processuale”, secondo le convenzioni di un genere caro agli americani.
Incarnato da Matthew Rhys, il cui nome dirà poco o nulla, il giovane Perry Mason è tornato traumatizzato dalla Prima guerra mondiale, è stato mollato dalla moglie che s’è portata via il figlio, vive con due vacche nella vecchia fattoria paterna ormai inglobata da un piccolo campo d’aviazione, va a letto volentieri con la ricca messicana che vuole comprargli la proprietà. Per vivere fa l’investigatore privato, di quelli che spiano e fotografano attori porcelloni come Chubby Carmichael (l’allusione è a “Fatty” Arbuckle) per tirare su qualche dollaro; ha una giacca di pelle lisa, la cravatta impataccata, la barba malfatta, un Borsalino unto.
Un uomo in disarmo. finché non si ritrova a indagare, assunto da un principe decaduto del Foro, tal Elias Birchard “E.B.” Jonathan, sull’orribile caso del giorno. Un bambino di un anno, Charlie Dodson, è stato rapito in cambio di un riscatto di 100 mila dollari e restituito cadavere ai genitori con gli occhi orribilmente cuciti.
Siccome l’intreccio è complesso, ben piantato nell’America uscita a pezzi della Grande Depressione ma alla vigilia del New Deal, mi pare d’obbligo non raccontare gli eventi che porteranno, in un succedersi di colpi di scena, tra omicidi, suicidi, tradimenti, indagini guidate, affari di una strana Chiesa in cerca di profitti, fanatismi di massa, cadaveri trafugati e soprattutto menzogne, alla decisione dello scorticato Perry di far il gran salto: da rassegnato “private eye” a inesperto avvocato difensore della principale sospettata.
Rispetto alle sicurezze granitiche, pure alla mole fisica, di Raymond Burr, il più mingherlino Matthew Rhys sfodera un’indole e un temperamento lontani dal modello televisivo originale, diciamo una tosta fragilità che lo rende insieme cinico e idealista, maldestro e geniale, beffardo ed eroico. Il suo “adagio” preferito? “C’è il giusto e c’è il legale”.
Il cast principale è arricchito da John Lithgow, Juliet Rylance e Chris Chalk, nei ruoli rispettivi di “E.B.” Jonathan, Della Street e Paul Drake (nero), ciascuno dei quali custodisce un segreto, anche intimo, una voglia di riscatto. Tim Van Patten dirige i primi episodi e gli ultimi due, ma mi paiono decisamente migliori quelli centrali che portano la firma di Deniz Gamze Ergüven. Quanto al celebre tema musicale, bisogna aver pazienza, prima o poi arriverà…

Michele Anselmi