L’angolo di Michele Anselmi 

Doveva uscire il 5 marzo, qualche giorno prima del cosiddetto lockdown, ma poi non se ne fece più nulla, almeno credo, per ovvie ragioni. Sette mesi dopo “Sola al mio matrimonio”, da oggi 1° ottobre, ci riprova in pochissime sale. Girato nel 2018 e passato in qualche festival importante e acquistato per l’Italia da Cineclub Internazionale, il film di Marta Bergman è di quelli indipendenti, piuttosto aspri, di piglio realistico, che sembrano “rubati alla vita”, anche se spunta a sorpresa qualche sogno/visione.
La regista belga è assai attratta dalla vita dei rom, e “Sola al matrimonio” nasce appunto da un documentario girato in Romania e trasformato in storia “di finzione”. Si parte da un villaggio alle porte di Bucarest: una giovane mamma, Pamela, si tinge i capelli di rosso per risultare più appariscente e “occidentale”, e presto capiremo perché. Lei vive in una specie di baracca con la figlia piccola ancora da allattare e la nonna che arrotonda facendo la cantante. Ma è dura vivere senza acqua corrente in casa, sicché Pamela usa gli ultimi soldi per trovarsi un marito all’estero, tramite Internet.
La scelta cade su un belga, tal Bruno, al quale lei non rivela di avere una figlia. Arrivata sola a Liegi, con tre-quattro parole di francese in tutto, l’aspirante moglie si mostra all’uomo, metodico e gentile, ancorché sospettoso, per quella che è: spontanea, ironica, insolente, vivace, sessualmente disponibile. D’accordo, in casa mancherà il televisore piatto e la musica ascoltata da Bruno è da incubo, ma un po’ alla volta i due sembrano lenire insieme le proprie solitudini, perfino immaginando di sposarsi. Non andrà come previsto.
Lei è incarnata da Alina Serban, lui da Tom Vernier. Il contrasto non è solo fisico o antropologico, naturalmente. Pamela, quasi sospesa tra la nuova vita da godere e il pensiero per la figlia rimasta in Romania, prova a trapiantarsi in quel mondo occidentale, anche ad imparare la lingua, ma la sua esuberanza la porta sempre a mettersi nei guai. Bruno, irrigidito da un’infanzia infelice, devastato da una madre ancora invadente, fatica a lasciarsi andare, preso com’è dalle proprie piccole manie da single.
Esteticamente il film si muove tra Christian Mungiu e i fratelli Dardenne, molta camera a mano che spia e fruga nei corpi, poca musica se non diegetica, tante riprese di nuca, poco “romance” sentimentale, un vago senso di tragedia imminente. Alla fine nessuno si sposerà (il titolo viene da una canzone tradizionale rom); però un sorriso di Pamela sigilla una sorta di pace con l’esistenza e le illusioni.

Michele Anselmi