L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Esce nelle sale il 4 maggio, a oltre sei mesi dall’anteprima alla Festa di Roma, e speriamo che il pubblico pagante, sempre più distratto e concentrato su pochissimi film di forte richiamo, se ne accorga. Il titolo, senza virgole, è presto spiegato. «Dammi tre parole / sole cuore amore» cinguettava infatti la canzone di Valeria Rossi, un inatteso successo, in chiave di tormentone estivo, nel lontano 2001. È partito da lì Daniele Vicari, romano, classe 1967, per intitolare il suo nuovo film, che arriva a quattro anni e passa dal durissimo “Diaz – Non pulire questo sangue” sui fatti di Genova. «Un film semplice, come il verso della canzone da cui è tratto, come semplici sono le esistenze di cui racconta la storia» spiegava proprio sul catalogo della kermesse romana.
Storie normali di gente normale, anche se il titolo va letto forse per antifrasi, pur contenendo dentro di sé alcune chiavi di lettura: la solitudine dei personaggi (più che il sole inteso come astro), un cuore ballerino e irregolare, l’amore etero e omosessuale che fa comunque soffrire.
E tuttavia, a parere certo discutibile del sottoscritto, “Sole cuore amore” è un film riuscito a metà. Ma, beninteso, da vedere. Vicari è cineasta solido e sensibile insieme, con un preciso punto di vista politico su questa Italia sempre più precaria e infiacchita, a suo modo feroce con i deboli e matrigna verso il talento. Ma stavolta qualcosa sembra funzionare meno nell’amalgama degli elementi: il film gira un po’ a vuoto, non trova proprio quella «giusta distanza» rivendicata dall’autore, si affida a sfocature estetiche e montaggi incrociati che alla fine poco aggiungono al nucleo emotivo del dramma.
Ogni mattina per Eli (Elisa?) suona la sveglia alle 4.30. Ancora bella e giovane, ma già madre di quattro figli, la donna impiega due ore per arrivare da Torvaianica al posto di lavoro, un bar dalle parti di via Tuscolana. Eli è sorridente, piace ai clienti, svelta e intraprendente, ma quella vita faticosa la sta devastando, anche perché il marito è senza lavoro e con 800 euro al mese non si va avanti. Vale (Valeria?) invece torna a casa a notte fonda, mentre l’amica Eli sta uscendo. Danzatrice e performer, è single, in rotta con sua madre e forse infatuata della sua compagna di spettacoli in discoteche e feste private. Di giorno Vale si occupa dei figli di Eli, li porta a spasso o li aiuta a fare i compiti.
Partendo da esperienze variamente autobiografiche, Vicari intreccia le due storie con piglio realistico, molto confidando sull’immediatezza dialettale, la descrizione degli ambienti, la mobilità nervosa della cinepresa. Di contro, la potenza cromatica del rosso (il cappottino di Eli, i costumi Vale) e il sassofono jazz di Stefano Di Battista introducono elementi di “invenzione” volti, si direbbe, a ispessire metaforicamente la rappresentazione di un quotidiano intriso di razzismo, avidità, piccola criminalità.
Alla fine il film resta in bilico, inespresso, con troppa voglia di dire e suggerire, un po’ si rimpiange la sobria espressività del cinema “sociale” dei fratelli Dardenne, di Ken Loach, di Stéphane Brizé, di Laurent Cantet, gli stessi, immagino, che piacciono a Vicari. Come al solito Isabella Ragonese, una delle migliori interpreti a disposizione del cinema italiano, è brava, intensa, cangiante, pure a suo agio, lei che è siciliana, nell’esprimersi nel proletario romanesco di Eli. Mentre Eva Grieco dà corpo all’infelice Vale, ballerina e donna irrisolta, sempre in cerca di una maschera dietro la quale celarsi, annullarsi.
Michele Anselmi