L’angolo di Michele Anselmi

Solo tre giorni in sala (30 settembre, 1 e 2 ottobre) con Nexo Digital, come evento speciale, in vista, si direbbe, di un ravvicinato sfruttamento televisivo. Non è detto che sia un male per “Il sindaco del rione Sanità”, infatti Mario Martone ha accolto con entusiasmo la proposta, così almeno confessa. Per la serie: chi è interessato, corra subito a vederlo.
In concorso un mese fa alla Mostra di Venezia, dove già nel 2018 il regista napoletano aveva portato il suo “Capri Revolution”, il nuovo film, targato Indigo e Raicinema, è stato girato in quattro settimane, velocemente, quasi fosse un’estensione creativa dello spettacolo teatrale allestito nel 2017 al Nest di San Giovanni a Teduccio.
Trattasi, come saprete, di una versione moderna della commedia tragica “Il sindaco del rione Sanità”, scritta nel 1960 da Eduardo De Filippo. Allora, dopo le prime repliche e di fronte a qualche malinteso, il drammaturgo/attore spiegò che “la camorra è solo un pretesto per elevare Antonio Barracano a simbolo, con lui muore un simbolo”. Già all’epoca gli americani avrebbero voluto farne un film con Anthony Quinn, ma il l’autore negò i diritti. Poi il film si fece lo stesso nel 1996, diretto da Ugo Fabrizio Giordani, proprio con Quinn nei panni del “sindaco” e la vicenda trasportata nella Chicago degli anni Cinquanta. Un mezzo disastro.
Anche Martone fa prendere un po’ d’aria alla commedia e la proietta nel mondo di “Gomorra” & dintorni. La locandina pop, che ritrae l’attore protagonista Francesco Di Leva con sguardo da truce camorrista e dietro gli occhi giganti di una tigre, evoca un clima da film d’azione, dove si spara e si regolano conti. Ma è solo una suggestione, perché, esaurito l’incipit notturno “in esterni”, il film si rinchiude per due dei tre atti nella villa sotto il Vesuvio dove il boss Barracano passa alcuni mesi all’anno con la sua amata famigliola e le guardie del corpo.
Se “il sindaco” di De Filippo aveva 75 anni, indossava giacche da camera e portava i capelli a spazzola, quello di Martone è appena quarantenne, veste di nero, preferibilmente capi di pelle, e sfoggia un taglio da guerriero “mohicano”. Ricco, scaltro e potente, l’ex capraio è un “uomo d’onore” che amministra la giustizia a modo suo, con carismatica saggezza, colmando l’assenza dello Stato, ricomponendo contrasti e aggiustando le cose a volte sul filo di un teatrale paradosso (la sequenza beffarda dei soldi invisibili). Finché, la faccio breve, non si trova di fronte lo scalpitante Rafiluccio, che vuole sparare al padre, il ricco e onesto panettiere Arturo Santaniello, sentendosi abbandonato e umiliato.
Chi conosce l’originale sa che Barracano rivede in quel giovane deciso a uccidere un sentimento assoluto di vendetta vissuto sulla propria pelle tanti anni prima, quando la rabbia armò la sua mano di un coltello. E un’altra lama spunterà fuori nel terzo ultimo atto, il più astratto e “morale”, stavolta ambientato nel cuore del rione Sanità, tra muri sgarrupati e arredi kitsch, mentre il destino si compie con esiti funesti lasciando al “sindaco” l’unica scelta possibile per evitare una futura faida.
Benché una scritta dica “Sceneggiatura tratta integralmente dalla commedia di Eduardo De Filippo”, Martone ha espunto il monologo cruciale contenuto nell’epilogo, quando il dottore Fabio Della Ragione, dopo la morte violenta di Barracano, si sottrae alle indicazioni dell’amico “sindaco” e redige un verbale che dice tutta la verità sugli eventi.
Perché l’ha fatto? Si direbbe per stemperare il pessimismo di fondo di Eduardo, anche per introdurre una nota di speranza, affinché il sacrificio del boss non sia tragicamente vano, semmai alto, nobile, lungimirante, benché ci siano segnali non proprio rassicuranti…
Scandito dalle canzoni rap di Ralph P, il film sfodera una certa estetica “gomorrista” (gesti, pistole, facce, abiti, sguardi, dinamiche) continuamente contraddetta/nobilitata dal testo eduardiano, adattato da Martone e da Ippolita di Majo. L’effetto è a tratti spiazzante, ci sarà chi non apprezzerà gridando alla forzatura registica, ma l’operazione è legittima: un po’ come se Tarantino o Scorsese mettessero i loro gangster a confronto con una pièce di Pinter per vedere l’effetto che fa (affiora pure qualche citazione hitchcokiana nel finale tragico).
Sedici gli interpreti convocati da Martone, bravi e quasi tutti ripresi dalla versione teatrale, anche se la partita vera si gioca tra Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo e Roberto De Francesco, rispettivamente nei ruoli di Barracano, Santaniello e del dottore Della Ragione.
Per la cronaca: a gennaio Martone sarà di nuovo sul set per “Qui rido io!”, protagonista Toni Servillo, dedicato alla figura del drammaturgo Eduardo Scarpetta, padre naturale di De Filippo. Tutto torna, a quanto pare.

Michele Anselmi