La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 5
A 75 anni compiuti, Paul Schrader è uno dei più “giovani” registi americani in circolazione. Per spirito, intendo. Nella sua curiosa carriera, di sceneggiatore prima e regista poi, ha conosciuti enormi successi e sonori tracolli; certo non poteva mancare in concorso alla Mostra il suo nuovo film, “Il collezionista di carte”, che esce in contemporanea nelle sale italiane. In realtà non c’è nessuno “collezionista”, il titolo originale suona infatti “The Card Counter”, in riferimento alla discussa pratica di “contare le carte”, in voga tra i giocatori d’azzardo. Ma non aspettatevi un film classico sul poker, anche se viene spiritosamente citato “Cincinnati Kid” con Steve McQueen. Come ha detto Schrader in un’intervista a Paola Jacobbi, “le professioni dei miei personaggi nei film sono tutte metafore, sono la maschera che serve per raccontarli meglio: possono essere spacciatori, poliziotti, preti o, come in questo caso, giocatori d’azzardo, nei lori occhi ho visto una specie di vuoto”.
William Tell è un “gambler” di piccolo cabotaggio, che non ama dare nell’occhio. Frequenta i casinò del sud, vincendo ogni volta quel tanto che basta. È laconico, osservatore, veste sempre elegantemente di grigio, porta i capelli lisciati all’indietro, gira con un corredo di lenzuola che usa per ricoprire minuziosamente ogni oggetto delle camere di motel. Perché lo fa? Sappiamo che è stato recluso a lungo in un carcere militare, dove ha imparato ad apprezzare ordine e routine. Ma la vita errabonda sta per metterlo di nuovo a confronto con i suoi fantasmi peggiori: quelli dell’infernale carcere di Abu Ghraib.
Meglio non svelare troppo qui, diciamo solo che la sua esistenza metodica e solitaria sarà scossa dall’incontro con un disordinato giovanotto di nome Cirk (con la c) il quale ha un conto aperto con un feroce contractor, tal John Gordo, noto anche al “contacarte”.
“Niente può giustificare ciò che abbiamo fatto” è la frase clou di questo film strano e doloroso, sempre a un passo dalla crisi di nervi, nel quale si rispecchiano i temi etici e morali cari al calvinista Schrader: la responsabilità individuale, il senso di colpa, la redenzione impossibile, la quiete dopo la tempesta.
Mirabilmente incarnato da Oscar Isaac, il “gambler” teorizza le formule perfette per vincere a blackjack e insieme si illude di poter sconfiggere le atroci visioni delle torture che inflisse per conto del governo. Ma il finale, a suo modo, è di speranza, siglato da una splendida immagine poetica che condensa il punto di vista di Schrader sul dilemma etico. Il film, “presentato” da Martin Scorsese, è imperfetto ma insinuante, fatto anche di respiri ansimanti, di rumori molesti simili ad acufeni, di un disagio a fior di pelle. Nel cast anche Tye Sheridan e Tiffany Haddish, ma soprattutto Willem Dafoe, ormai quasi un attore-feticcio per il regista.
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Jane Campion, a dodici anni dal suo “Bight Star”, ricostruisce invece il Montana nel 1925 tra le colline aspre della sua Nuova Zelanda, e un po’ si vede. Con “The Power of the Dog” siamo tecnicamente in zona western, tra mandrie e cowboy, anche se il romanzo omonimo di Thomas Savage da cui il film prende le mosse, edito in Italia da Neri Pozza, in fondo parla d’altro: di omosessualità latente o repressa, della gelosia fraterna, delle forme fantasiose della vendetta, della desolazione anche nell’agio. Infatti è l’unico western in cui non si spari nemmeno un colpo di pistola o di fucile, neanche si vedono Colt e Winchester. Semmai viene da pensare a film come “La valle dell’Eden” o “I segreti di Brokeback Mountain”, specie per l’indagine psicologica sulla virilità e le ambiguità che la circondano.
I fratelli Burbank, Phil e George, gestiscono un ricco ranch nel cuore del Montana. L’uno è ruvido, bullo e omofobo, poco incline a lavarsi, insomma una specie di “macho”; George, il maggiore, è gentile, elegante e sensibile, soprattutto in cerca di una moglie per lenire la solitudine. La troverà nella vedova Rose, una locandiera ancora bella, madre di un adolescente, Peter, che appare “strano”, un po’ femmineo, dedito a modellare fiori di carta per abbellire i tavoli.
Un colpo, per Phil, quel matrimonio del fratello, perché sconvolge la rassicurante routine e mette a nudo qualcosa di oscuro, di non detto. La sua risposta sarà una diuturna guerra casalinga nei confronti dei due “intrusi”, ma con esiti inattesi, s’intende tragici.
“The Power of The Dog” è un titolo a chiave: è ripreso da un apologo dell’anglicano “Book of Common Prayer” e insieme si riferisce a una formazione rocciosa nella quale si può riconosce l’immagine di un cane proteso alla caccia. Ma chi è il vero cane in questa storia cupa e disperata, fatta di silenzi e imbarazzi, alcolismo e umiliazioni, antrace e corde intrecciate? Girato tra paesaggi maestosi, a luce naturale, quasi a farci “sentire” la vita vera dei cowboy, il film ha un andamento lento e un po’ tedioso, certo minaccioso, come se ogni gesto di rabbia o disperazione ne preparasse un altro, in risposta.
L’inglese Benedict Cumberbatch deve essersi divertito assai nel riprodurre lo slang americano del vaccaro e indossare gli abiti lerci dell’enigmatico Phil, in una trasformazione anche fisica che potrebbe portarlo verso la Coppa Volpi; mentre Kirsten Dunst, Jesse Plemons e Kodi Smit-McPhee incarnano l’angariata vedova, il fratello laconico e l’adolescente che forse non la racconta tutta. Il tutto si vedrà su Netflix.
Michele Anselmi