L’angolo di Michele Anselmi 

Solo tre giorni in sala, il 4, il 5 e 6 febbraio, per “Tramonto”, il film ungherese distribuito da Movies Inspired. Quindi, chi fosse interessato, è pregato di affrettarsi. Passato in concorso alla Mostra di Venezia 2018, il film di László Nemes si chiama in originale “Napszállta”, che significa appunto, più o meno, “Tramonto”: di un’epoca, di un mondo, di una cultura, di un impero.
Il cinema di Nemes è complesso, arduo, artificioso, diciamo pure molto da mal di testa per l’uso nervoso della cinepresa sempre incollata alla nuca dei suoi personaggi, a restituire una visione parziale dell’insieme, quasi “in soggettiva”. Se la radicale scelta estetica funzionava nel controverso “Il figlio di Saul” sui campi di sterminio nazisti, nel nuovo film si giustifica un po’ meno, anzi fa affiorare il sospetto di una certa ostica e programmatica accademia.
D’altro canto anche qui c’è poco da stare allegri, nonostante gli iniziali colori pastello. Nella sontuosa Budapest del 1913 torna da Trieste la giovane modista Irisz Leiter, decisa a farsi assumere nella prestigiosa cappelleria che fu dei suoi genitori, periti in un misterioso incendio anni prima. La giovane donna sfodera talento e bellezza, ma il nuovo proprietario, ben ammanicato con gli austriaci, non la vuole e la rimette sul primo treno. Irisz non demorde, e anzi, scoperto di avere un fratello di cui ignorava l’esistenza, si ritrova immersa in una congiura ordita da una cupa setta di rivoluzionari bombaroli che ha preso di mira proprio il famoso, ancorché ambiguo, atelier frequentato da alti papaveri dell’impero austro-ungarico.
“Dietro quell’infinita bellezza si cela l’orrore del mondo” sentiamo dire in una battuta; ancora pochi mesi a scoppierà la Prima guerra mondiale, e a quel punto Irisz, scampata alla resa dei conti, dovrà curare ben altre ferite nelle trincee immerse nel fango e nel sangue.
Lo spettatore si muove come in un labirinto, esattamente come capita alla protagonista della storia, incarnata dalla fiera e imperturbabile Juli Jacab. Il film è elegante, sempre allusivo, l’aria del tempo è ricostruita con cura; e tuttavia 142 minuti sono tanti, troppi, e ogni tanto verrebbe voglia di chiedere la regista: facci capire che sta succedendo.

Michele Anselmi