L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Mettiamola così, in maniera aulica, così i cinefili non si offendono. Trovo che il tedio sia consunstanziale al cinema di Terrence Malick e viceversa. Naturalmente la noia è sentimento soggettivo, non esistono regole generali, specie in materia di film. “C’era una volta in America” di Sergio Leone a me pare estenuante, insopportabile, poetizzante; per quasi tutti invece è un capolavoro epocale. Ma con Terrence Malick, il 74enne regista-filosofo che esordì nel 1973 con “La rabbia giovane” presto ascendendo al ruolo di cineasta di culto, anche i più sfegatati estimatori cominciano a vacillare. Si va a vedere i suoi film, e in un lustro ne ha fatti parecchi, da “The Tree of Life” a “To the Wonder”, da “Knight of Cups” a “Voyage of Time”, con una sorta di ammirata rassegnazione, un po’ come una tassa da pagare nella speranza di essere smentiti dagli eventi. Non succede mai. Fanno fede, sul piano della cronaca, gli sbadigli alla proiezione-stampa di “Song to Song”, che esce oggi, 10 maggio distribuito da Lucky Red.
Malick è un intellettuale appartato e raffinato, poco incline a mostrarsi, infatti non promuove mai i suoi film, lasciando che essi parlino da soli. E qui sta il problema. I migliori attori di Hollywood e dintorni fanno a gara per comparire nelle sue “operette morali”, spesso per pochi minuti, in forma di partecipazioni e cammei, rassegnati anche ad essere brutalmente tagliati via (è successo qui con Christian Bale, già protagonista di “Knights of Cup”). Ma tutti finiscono triturati, perché Malick li usa in una chiave del tutto decorativa, ectoplasmatica, nei fatti impedendo loro di recitare, di relazionarsi l’un l’altro. Sono figurine famose, bei volti o bei corpi, inseriti in un congegno drammaturgico che vive di montaggio sfrenato, di frammenti allusivi, di sentenziose voci fuori campo, di immagini naturali (mari, acqua, schiume, nebbie, albe, tramonti).
Prendete “Song to Song”. Chi passa, non solo metaforicamente, “da una canzone all’altra” è Faye, una cantautrice di crescente successo sentimentalmente in bilico tra il tenero collega BV e il depravato produttore discografico Cook. Siamo ad Austin, Texas, capitale di una scena musicale non solo di matrice country (da lì vengono Lyle Lovett e Robert Earl Keen). Faye è angelica e perversa allo stesso tempo, di sicuro sessualmente irrisolta, infatti finirà anche a letto con una bella straniera lesbica. Mentre i due giovanotti, smaltite le pene della coppia aperta, troveranno altrove donne con le quali accompagnarsi: il confuso BV si fa sedurre dalla facoltosa e biondissima Amanda, mentre il depravato Cook seduce la popputa proletaria Rhonda, coinvolgendola in strani giochetti erotici. Insomma le cose s’incasinano parecchio e ci scappa anche il morto.
Terrence Malick è anche sceneggiatore, ma i dialoghi non sono il suo forte. I suoi attori, un po’ sbalestrati e sconnessi, ripresi da ogni angolatura possibile con cromatismi accentuati, pronunciano frasi stentoree del tipo: “È un grande negozio di dolciumi là fuori”, “Il mondo vuole essere ingannato”, “Niente di quello che vedi esiste”, “È tutto in caduta libera, tu non sei chi credi di essere”. Tutti i personaggi ostentano un gran malessere esistenziale, piangono, amano o gridano in silenzio, ma si direbbe che la storiella legata alle due coppie più o meno intrecciate conti poco o niente: è il cosiddetto “poema visivo” a farsi trama, scandaglio esistenziale e dilatazione dell’anima, complice la suggestiva fotografia di Emmanuel Lubezki intenta a riprendere case postmoderne, panorami urbani e abiti di lusso.
Profondo? A me non pare. Ogni tanto il ridicolo involontario scappa di mano al venerato maestro, che ama la pezzatura lunga: 130 minuti. Nel ruolo di se stessi, musicisti come Patti Smith e Iggy Pop chiacchierano a ruota libera, mentre le star coinvolte sembrano chiedersi, pur lusingate, “che ci faccio qui?”. Ryan Gosling è BV, Rooney Mara è Faye, Michael Fassbender è Cook, Natalie Portman è Rhonda, Cate Blanchett è Amanda. Al cinema hanno fatto tutti molto di meglio, in questi anni. Per fortuna echeggia “Rollin’ and Tumblin’” cantata da Bob Dylan, purtroppo dura poco.

Michele Anselmi