Non gradito. Gli altri avevano paura di farlo scrivere | Pubblicato su Il Fatto Quotidiano di oggi
Straniero in patria. Così ricordo Antonio Tabucchi. Ormai da anni si era allontanato dall’Italia. Non la capiva più e il paese forse non capiva più lui. Mi correggo: non il paese, ma i suoi piani alti, se è vero quanto mi diceva in uno dei nostri ultimi colloqui. E cioè che i giornali italiani sempre meno gli chiedevano articoli – con l’eccezione de L’Unità prima e del Fatto dal 2009 – perché troppo duri e intransigenti. Come quando tempo fa ebbe a criticare l’operato del Quirinale, a suo avviso troppo blando nei confronti delle malefatte di governo. Ricordo che ridevamo, perché gli stava succedendo proprio quello era accaduto al suo personaggio più famoso, Pereira, anche lui giornalista e scrittore, al quale il direttore del giornale vietava di occuparsi di politica, obbligandolo a compilare necrologi. Tabucchi vedeva l’Italia per quello che è e che tutti speriamo non sia più: corrotto, viziato, compromesso, annegato in un incredibile degrado culturale. Se avesse modo di leggere i commenti di tanti che ora lo piangono avendolo avversato in vita, riderebbe sotto i baffi per queste lacrime di coccodrillo, con quella sua sottile ironia. La notizia della scomparsa di Tabucchi mi lascia ferito. Non sapevo della sua malattia, non me ne aveva mai parlato, credo per discrezione. Eravamo diventati amici quando insieme abbiamo lavorato a Sostiene Pereira, il film ispirato al suo bellissimo romanzo. Ci sentivamo di quando in quando per aggiornarci sulle nostre vite. Ogni tanto gli mandavo i miei film e lui i suoi libri. Più di una volta abbiamo fantasticato di fare di nuovo qualcosa insieme, ma l’idea veniva sempre rimandata. Ci abbandona non solo uno dei più grandi scrittori contemporanei, ma un esempio di coerenza e passione etica, che sarebbe bello seguissero in tanti, soprattutto i più giovani. Antonio amava il suo paese d’origine, ma non sopportava più i suoi intrighi, le sue ripetitive balordaggini, quelle orride marionette che frequentano le stanze dei bottoni. Quando gli ho mandato il dvd de I Vicerè, mi disse che a volte gli veniva il dubbio se anziché essere nel Duemila non fossimo ancora fermi ai tempi di Federico De Roberto. Mi citava quelle crudelissime pagine sul trasformismo e sulla vocazione voltagabbana dei saltimbanchi che si alternano sulla nostra scena politica. Il periodo più bello che ho trascorso con lui è stato alla lavorazione di Sostiene Pereira. Del film Antonio ha firmato i dialoghi, ma non solo. Mi è stato vicino nel farmi conoscere la segretezza dei vicoli di Lisbona, il suo mare e le sue lagune, la sua cultura e la musica del fado. Mi ha aiutato a superare i momenti più difficili, come quando ci siamo trovati soli, senza finanziamenti, perché i distributori italiani non volevano Marcello Mastroianni. Dicevano, gli idioti, che gli spettatori si erano stancati di lui perché troppo vecchio. Come se gli attori dovessero restare sempre giovani. E quando insieme alla mia produttrice Elda Ferri abbiamo fatto a meno di costoro e ipotecato le nostre case per fare comunque il film con Mastroianni, Tabucchi si era offerto di mettere nel budget il suo compenso. Anche se viveva ormai all’estero, tra Parigi alternata a Lisbona, i suoi racconti trasudano di noi. Diceva che gli piaceva Lisbona, la città di sua moglie, perché dalla “periferia” si può osservare meglio il centro del mondo. A ben pensare, le gesta di Pereira, uomo anziano, malato e solo sotto una bieca dittatura, appartengono al Portogallo, ma anche a tutti noi, italiani, francesi, spagnoli… “Quando la voce del potere sopprime la democrazia e la libertà di informazione siamo tutti uguali”, mi diceva quando abbiamo iniziato le riprese del film, sulla collina che si affaccia al porto di Lisbona. Pubblicato agli albori del berlusconismo, molti hanno visto in quel romanzo un atto di accusa che presagiva, parlando del passato, un futuro fosco e malsano. Abbiamo avuto poco tempo di parlare del presente. Dell’attuale compagine governativa apprezzava l’onestà, ma diffidava di certe pratiche consociative che gli ricordavano il compromesso storico. Quando lavoravamo al film, gli chiedevo se secondo lui il suo romanzo “pendeva” più sul versante politico o su quello umano. A me questo interessava più del primo, considerando l’indole e il carattere mite di Mastroianni, per sua natura poco incline all’ideologia e all’impegno. Antonio sorrideva, lui sorrideva spesso, e mi diceva il regista sei tu. Ma quando si parlava di politica, il suo non era certo un dissertare bizantino, andava dritto al cuore dei problemi, non conosceva mezze misure, se ne fregava delle belle maniere. Lascia un vuoto immenso, un po’ come quando scomparve Pasolini. C’è qualcuno qui da noi in grado di raccoglierne il testimone? Non lo vedo, ma spero tanto di sì.