di Adalberto Gianuario

Il classico di Christian Metz “Cinema e psicanalisi” può essere inteso come il più raffinato tentativo di descrivere gli equilibri su cui si dispongono il film e il suo spettatore nel momento della visione. L’osservazione di Metz assume come punto di partenza la separazione del film dallo spettatore, la loro dislocazione su territori distinti: “Sono al cinema. Assisto alla proiezione del film. Assisto. Come la levatrice che assiste a un parto e che per questo assiste la partoriente, sono presente al film secondo la duplice modalità (e tuttavia unica) dell’esser-testimone e dell’essere-aiutante: guardo e aiuto. Guardando il film lo aiuto a nascere , lo aiuto a vivere, perché è in me che vivrà e perché è fatto per questo: per essere guardato, cioè per non esistere se non sotto lo sguardo”.

Chi guarda, scrive Metz, fa vivere il film dotandolo di senso. Elaborando la propria prospettiva di visione dà significato al film, lo colloca nella propria esperienza di individuo e di spettatore. Tutto ciò avviene nell’ambito di una geometria definita da Metz col termine “regime ”, che prevede una precisa distinzione tra il film e il suo spettatore.  La macchina Avatar sembra pensata per polverizzare questa distinzione. Nel titolo intravediamo già il suo scopo: Avatar non è solo un riferimento allo sdoppiarsi del personaggio principale, che si trova a vivere la propria esistenza più autentica in un corpo artificiale, è una dichiarazione di intenti nei confronti di chi guarda il film, chiamato a svestire il proprio ruolo di osservatore, ad accantonare la soggettività del suo sguardo, e a immergersi nella vicenda del protagonista come se fosse lui stesso a viverla.
In questa chiave, cioè secondo una lettura meta-cinematografica, utile, a mio avviso, a comprendere le implicazioni del film, la vicenda del protagonista coincide con quella dello spettatore. Il repentino passaggio del soldato Jake Sully nella nuova pelle Navi e la sua sempre più piena adesione ad essa – attraverso continui esercizi e prove iniziatiche -, somigliano al tragitto che Cameron intende far compiere al pubblico, verso la piena sovrapposizione con la figura del personaggio principale. Il film sembra poi continuamente suggerire l’idea di indistinzione tra  forme diverse: gli umani possono diventare Navi, i Navi entrare nella mente di altri esseri viventi, il prezioso minerale ambito dagli umani trasfonde energia alla terra, la terra accoglie le anime dei morti. Si attiva così la rappresentazione di un mondo in cui ogni condizione sembra poter scivolare nell’altra, il che forse stimola lo spettatore a sentirsi parte di questo mondo, slittando lui stesso in un’altra prospettiva che è quella, ovviameente, del soldato Sully. Si può obbiettare che l’identificazione dello spettatore, l’abbattimento della sua incredulità è uno scopo da sempre connaturato al cinema, tuttavia, nel corso degli anni le strategie narrative si sono evolute, indirizzandosi verso l’apertura del testo cinematografico, nel tentativo di adattarsi alla contemporaneità e di superare, come scrive Mariagrazia Fanchi,  “l’idea che lo spettatore sia interpellato in modo uniforme dal testo e obbligato a seguire percorsi predeterminati di fruizione, pena la perdita del piacere della visione” . Il dato paradossale di Avatar è la combinazione di un impianto visivo di inedita modernità a un  dispositivo narrativo arcaico, riconducibile a un certo cinema hollywoodiano degli anni ’40-’60, secondo cui un eroe schierato inequivocabilmente dalla parte del bene è costretto a superare molti ostacoli per il raggiungimento di un obbiettivo che è chiaro fin dal principio, e nel far ciò chiede piena adesione al pubblico.
La miscela di tecnologia avvenieristica e narrazione convenzionale genera un linguaggio regressivo, molto simile a quello di  un videogioco, in cui è richiesta, da parte di chi vi partecipa, totale identificazione con l’intraprendenza del protagonista e tutto il resto diventa ininfluente: i personaggi secondari hanno senso solo in quanto alleati o nemici e così l’ambiente, che si posiziona continuamente rispetto al personaggio principale come fonte di minaccia o di aiuto.
In questo caso il margine di manovra cognitivo di chi vede il film, che normalmente si posiziona nei suoi confronti, trovando la strada per farlo vivere dentro di sé, si riduce al minimo. La specificità dello spettatore, che gli permette di partecipare alla visione agganciandola ai propri link emotivi, culturali, intellettuali è al grado zero.
Avatar persegue questo obbiettivo su un piano duplice, da una parte, come appena detto, comprimendo il margine di interpretazione individuale dello spettatore, dall’altra, imponendosi con la stessa forza sulla diversità degli sguardi di tutto il mondo. Interrogare il film di Cameron da una prospettiva antropologica non significa, credo, soffermarsi sulla rappresentazione tecnologica del popolo Navi, ma chiedersi se la sua visione, che avviene massicciamente sotto ogni latitudine culturale, permetta il manifestarsi di una lettura “altra”, cioè anche di poco svincolata dallo stringente meccanismo di identificazione messo a punto dagli autori, e magari domandarsi se la storia del film, che a noi spettatori “occidentali”  rivela l’intrinseca esaltazione di una popolazione indigena, vista da una diversa angolazione non appaia come una prepotente manifestazione di etnocentrismo, dato che il popolo Navi, nonostante la saggezza e la fierezza che lo caratterizza, non può respingere il tentativo di sopraffazione degli umani se non affidandosi alla guida di un umano stesso, dimostratosi più abile e coraggioso sul loro stesso campo.
Poiché lo scopo del film consiste principalmente nel condurre lo spettatore nei panni del protagonista, il racconto converge unicamente su di lui, oscurando la psicologia e le motivazioni degli altri personaggi e lasciando spesso senza spiegazione le loro azioni. Ad esempio, nonostante l’investitura sovrannaturale ricevuta dall’avatar Jake, stentiamo a comprendere l’improvvisa dedizione della principessa Neytiri nei suoi confronti. Ed è difficile spiegarsi perché Trudy, l’elicotterista che accompagna gli scienziati nelle loro missioni, decida tutt’a un tratto di abbandonare il suo ruolo a favore della popolazione Navi, con la quale, fino ad allora, non ha avuto nessun contatto diretto e che anzi dovrebbe temere. E perché l’arma finale della corazzata umana, che dà prova di essere molto ben equipaggiata, si riduce a una sorta di bomba artigianale che dovrebbe essere gettata fuori a mano dal portello della nave volante?  Inoltre non ci troviamo di fronte a elementi cinematografici forti; la recitazione è quasi inesistente, priva di sfumature come i personaggi del film. Se poi accettiamo la legittimità di considerare il valore delle inquadrature in un film quasi totalmente generato da rendering digitali, constatiamo che la cinepresa si muove didascalicamente, quasi sempre con lo scopo di esaltare la profondità del 3d. Esempio: un personaggio cade nella foresta – ci sono moltissime cadute nella foresta – la macchina lo segue fino a fermarsi, immancabilmente, sulla quinta di una pianta in primo piano, con il personaggio a terra sullo sfondo. Le quinte in primo piano risaltano l’effetto 3d e ricorrono pedissequamente in tutto il film.
Di fronte alla dose di retorica di cui la storia è imbevuta, di fronte all’ incompletezza dei personaggi, di fronte anche a un po’ di cattiva coscienza degli autori, che tratteggiano l’apologia di una società incontaminata dalla civiltà, per mezzo del più grande dispiegamento tecnologico mai utilizzato nella produzione di un film, ci si domanda come mai, nel momento della visione, la nostra saggezza di spettatori non faccia scattare i meccanismi di protezione, di incredulità che normalmente intervengono a schermarci da ciò che ci appare anche vagamente banale. Perché il film continua a rapirci fino alla fine? 
C’è da sospettare che le ragioni risiedano dalle parti del nostro sistema nervoso, dei nostri occhi intesi come organi biologici e che la coscienza rimanga momentaneamente in silenzio di fronte alla tecnologia sbalorditiva di cui il film è tessuto. Il dato ottico, la definizione, la fluidità, la cromaticità delle immagini digitali avvincono i nostri sensi, permettendoci di soprassedere su ciò che forse, normalmente, troveremmo noioso, pedante, anacronistico. Per questo, sono convinto, è così difficile giudicare Avatar, perché esso provoca in noi uno scollamento tra visione e pensiero, tra percezione ed emozione, uno scollamento, tuttavia, destinato a ricomporsi con il tempo, quando ci abitueremo a una tecnologia che oggi ci appare così evoluta e potremo vedere Avatar come qualsiasi altro film e non come un fenomeno ottico senza precedenti. Credo può essere interessante, per concludere, rileggere le parole di Truffaut – intervistato da Aldo Tassone nel 1975 – riguardo alle tecnologie che investivano il cinema in quegli anni. La loro attualità, a mio avviso, desta vero stupore: "Purtroppo si deve constatare che tutti i progressi del cinema sono contro la finzione. Ogni volta che si inventa qualcosa nel cinema si fa credere alla gente che le storie saranno più originali, spettacolari, intriganti, e invece è il contrario. Nel cinema muto le storie erano molto forti, ricche di forti contrasti; con il sonoro le storie sono diventate più sfumate. Poi ci siamo illusi che il colore avrebbe rivoluzionato tutto, e invece ci siamo accorti che nei film a colori si crede meno alla storia che nei film in bianco e nero. Cosa hanno in più il formato tridimensionale, e il suono dolby? Con il dolby se un personaggio spara un colpo di pistola, invece di guardare lo schermo la gente è tentata di girarsi verso la parte dove c`è l`altoparlante stereo! E’ un’enorme sciocchezza.”