L’angolo di Michele Anselmi
Parrebbe che Roan Johnson, classe 1975, non riesca proprio a liberarsi dai “sintomi” della pandemia da Covid. Due puntate della serie tv “I delitti del BarLume” sono state costruite, anche stilisticamente, sulle restrizioni imposte dal lockdown; e adesso arriva un suo film sullo stesso argomento, sia pure con ambizioni più ampie e metaforiche, di forte impronta morale, e cioè “State a casa” (dal 1° luglio in sala con Vision Distribution, produce Carlo Degli Esposti). Scrive infatti il cineasta anglo-pisano nelle note di regia: “Se c’è un contagio di cui dobbiamo davvero avere paura è quello dei lati più meschini della nostra natura”. Vabbè.
“State a casa”, dal pressante invito che veniva rivolto a noi tutti, comincia come una commedia generazionale alla Paolo Virzì, prosegue come “Weekend con il morto” di Ted Kotcheff e finisce un po’ come “Killer Joe” di William Friedkin. Dentro ci sono almeno tre film, nel senso delle atmosfere, in un crescendo che tende al macabro e al visionario, con tanto di allucinazioni.
Non avete capito nulla? Diciamo allora che Johnson scomoda quattro quasi trentenni, di diversa provenienza, colti nella loro casa romana durante il primo lockdown. Nicola ha perso il lavoro ed è incattivito col mondo, Paolo e Benedetta sembrano una coppia perfetta anche se…, Sabra, l’unica di colore, osserva e rassicura. La chiacchierata iniziale in terrazza, ripresa da un virtuosistico piano-sequenza, serve a depistare un po’ lo spettatore; perché subito capiamo che, all’interno di quell’appartamento un po’ ammuffito, ci sono problemi. Specie di soldi. Il padrone di casa al piano di sotto, l’ambiguo e viscido Spatola, non disdegna le grazie femminili di Benedetta; promette anche uno sconto sugli arretrati in cambio di una prestazione orale, solo che le cose precipitano e ci scappa, appunto, l’incidente.
Girato in economia, tutto in interni, con piglio teatrale, “State a casa” si propone come una “dark comedy” sulle pulsioni più profonde che regolano l’agire umano. Ogni personaggio sembra incarnare un vizio capitale o qualcosa del genere: e infatti avidità, invidia, ira, lussuria eccetera presto si affacciano nella turbata benché ilare congrega, con esiti devastanti.
“Questa è la storia di un virus, uno di quelli che nasce nello stesso organismo che lo ospita: l’organismo è la Terra, il virus siamo noi” sentiamo teorizzare da una voce narrante femminile. Johnson costruisce il suo film come una partitura folleggiante: sulle prime realistica, poi sempre più grottesca e allucinata, da incubo a occhi aperti. Funziona? Secondo me no. Alcuni dialoghi sono stiracchiati, altri sono troppo sentenziosi (basta, vi prego, con la favola della rana e dello scorpione); la costruzione risulta un po’ artificiosa, specie nel senso di minaccia alimentato; in compenso il sesso, così centrale nella storia, viene descritto con una certa audacia, inconsueta per il cinema italiano attuale.
Lorenzo Frediani, Dario Aita, Giordana Faggiano e Martina Sammarco sono i quattro spigliati conviventi, rispettivamente nei ruoli di Nicola, Paolo, Benedetta e Sabra; mentre il ritrovato Fabio Traversa e il canuto Tommaso Ragno (ormai una sorta di cine-prezzemolo, come un tempo Ivano Marescotti) incarnano l’untuoso portiere e il demoniaco padrone di casa. Poi ci sono Natalia Lungu e Leonardo Maddalena in parti minori.
Di fronte a “State a casa”, confesso, mi sono chiesto se gli italiani abbiano ancora voglia di vedere film ispirati alla clausura vissuta e alla dimensione allegorica della pandemia. Vale anche per il recente “Il giorno e la notte” di Daniele Vicari. Io penso francamente di no.
Michele Anselmi