Il cinema greco, lo sanno bene gli amanti del cinema, non ha grande cittadinanza all’interno dell’anonimo panorama delle sale italiane. Al di fuori dei grandi festival, in cui l’intera compagine globale (e globalizzata) propone le sue punte di diamante, chi non ha grande dimestichezza con la materia difficilmente può attingere a questa interessante fucina del presente. Proprio a Cannes e a Venezia, infatti, hanno trovato voce negli scorsi anni due interessantissimi lavori cinematografici di origine ellenica. I loro registi, Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari, accomunati da scelte stilistiche non dissimili e da un certo interesse per la liquidità del contemporaneo, sono riusciti a farsi riconoscere (anche a livello di giuria) come interpreti validi e attenti di un mondo che ci sta scivolando via dalle mani.
Se da una parte Lanthimos è riuscito a imporre il proprio nome a livello internazionale con il suo insuperato capolavoro Dogtooth, omaggiato addirittura della candidatura per l’Oscar come miglior film straniero due anni dopo la sua uscita, dall’altra la presenza di Tsangari all’interno delle sue pellicole in qualità di produttore si è tradotta nel breve volgere di un paio d’anni in un dialogo foriero di risultati perfettamente sintetizzati nel bell’Attenberg.
Al di là della incredibile politezza formale che accomuna questi titoli, cui possiamo aggiungere anche il successivo Alps, sempre firmato da Lanthimos, l’aspetto veramente interessante a livello collettivo dovrebbe risiedere nella polisemia della loro significazione e nella enorme complessità di stratificazioni semantiche che sono ospitate dalle loro inquadrature. È possibile fare un discorso comune per entrambi i cineasti proprio come diretta conseguenza di un dialogo palese tanto a livello produttivo (Tsangari figura fra i produttori di Lanthimos e quest’ultimo ha addirittura recitato una parte in Attenberg) quanto sotto il profilo poetico. Sono infatti essenzialmente due gli ambiti d’indagine in cui si esplica questa ricerca.
In primo luogo già in Dogtooth e successivamente in Attenberg i registri mettono in piedi una raffinata riflessione sullo statuto del linguaggio che, ricollegandosi a una fortunata tradizione filosofica che trova il suo inauguratore in Frege, si interroga sul riferimento dei termini utilizzati quotidianamente, recuperando almeno in parte anche una certa teoria convenzionalista criticata già da Platone. L’attribuzione di un nome a porzioni di realtà non è mai un atto neutro ma, al contrario, è un’operazione fortemente orientata attraverso la quale quello che Foucault avrebbe comodamente chiamato un potere disciplinante tiene sotto controllo un anonimo e deindividualizzato soggetto.
Questo apre al secondo spunto di riflessione, che si interroga (come d’altronde pare stia succedendo in diverse cinematografie nazionali) sullo statuto contemporaneo delle relazioni interpersonali, mediate dai cosiddetti non-luoghi, entità fisiche inabitabili che diventano oggi il luogo di passaggio e concretizzazione di una dinamica dei flussi che, senza esitare, è possibile definire “liquida”. In definitiva un tipo di cinema come quello di Lanthimos e Tsangari ci ricorda con pertinace insistenza che una delle modalità di rapporto all’immagine è quella critico-espressiva (per usare una sempre efficace espressione di Pezzella) che, suggerendo una consapevolezza dello sguardo nello spettatore, favorisce la formazione di una massa critica su base estetica, al fine di problematizzare questi snodi silenti della postmodernità.
Giuseppe Previtali