L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

«Tra il Foscolo dei “Sepolcri” e la serie tv “Six Feet Under”». Così, in gergo cinefilo, è stato definito “Still Life” di Uberto (senza la emme) Pasolini. Sarà. L’ex banchiere italiano trapiantato a Londra trent’anni fa, oltre ad essere nipote di Luchino Visconti e fortunato produttore di film come “Full Monty”, è diventato col tempo un regista di talento, come mostrò già con l’opera d’esordio “Machan”. Solo che lui stavolta aveva come modello il cinema di Ozu, palpitante di emozioni ma a volume basso, insomma una drammaturgia sottotono che procede per segnali e indizi, aprendosi sommessamente all’osservazione della realtà, anche la più dura e respingente. Modello forse insuperabile, il giapponese Ozu, e tuttavia “Still Life” è uno di quei film che pescano nel profondo e non si dimenticano un quarto d’oro dopo essere usciti dal cinema. Semmai, nella diversità delle abitudini culturali rispetto ai temi della morte, più che a Foscolo e a “Six Feet Under” viene da pensare a “Departures” di Yojiro Takita, un altro figlio del Sol levante, dove – forse ricorderete – un ex violoncellista disoccupato trovava una ragione di vivere nel pulire, preparare e truccare i defunti avviati al loro ultimo viaggio.

La locuzione “Still Life” in inglese ha vari significati: “natura morta”, nel senso legato all’arte pittorica e fotografica; ma anche “vita ferma”, “ancora vita” o “vita di immagini”. A pensarci bene, tutti e quattro funzionano bene per il film che esce per Natale distribuito da BIM (sì, non stupitevi, è il più bello da vedere insieme a “Philomena” di Stephen Frears) dopo aver vinto a Venezia il Premio Orizzonti per la regia. Perché il protagonista John May, incarnato con toccante e misurata sensibilità da Eddie Marsan, attore abituato a performance gigionesche, è un impiegato comunale del distretto londinese di Kennington il cui compito è occuparsi delle persone che muoiono in solitudine. “Funeral Office” è il nome esatto del servizio, e non si può dire che May non svolga coscienziosamente il proprio lavoro, mettendovi qualcosa di più intimo e personale, una partecipazione al lutto che si combina a indagini serrate.
Il funzionario non solo sceglie le musiche più adatte e scrive epicedi sentiti, in modo che i funerali da lui organizzati, spesso scegliendo bare troppo costose, non siano burocratiche incombenze sbrigate velocemente; ma, prima di rassegnarsi alla desolazione di quelle morti solitarie, si mette alla ricerca di parenti e amici, nella speranza di trovare qualcuno a cui consegnare effetti personali, fotografie, oggetti, sempre ricordando – la crisi economica morde dappertutto – che le spese di sepoltura sono a carico del Comune.

Un uomo perbene, insomma, preciso e realizzato sul piano professionale, ma anche lui un po’ “natura morta”: nell’abito, nella pettinatura, negli arredi casalinghi, nel cibo che consuma (quasi sempre una scatoletta di tonno, una fetta di pane tostato e del tè), nella solitudine che scandisce il suo tempo libero. Finché la “spending review” voluta da John Cameron non si accanisce: c’è da risparmiare, meno personale e più fosse comuni, arriva improvviso il licenziamento. Che May accetta con quieta rassegnazione, chiede solo una proroga di pochi giorni: in modo da sistemare l’ultimo caso, riguardante un ex parà alcolista, tal Billy Stoke, trovato morto nell’appartamentino di fronte al suo.

“Still Life” è la cronaca di un’indagine nel passato dell’estinto e insieme il resoconto di un ritorno alla vita. Perché May, deciso a rintracciare la figlia di Stoke perché partecipi al funerale di quel poveretto morto nella disattenzione generale, se possibile non da sola, comincia ad assaporare altri cibi, a indossare altri vestiti, a frequentare altre persone. Tutto congiura per il meglio, e ci fermiamo qui, perché succederanno parecchie cose…
«Non è un film sulla morte, semmai è una film sulla vita, sulla dignità e il valore della vita» sostiene Pasolini. Esattamente come “Departures”. Poco interessato a scandagliare «la società super privilegiata» dalla quale proviene (parole sue), il regista/sceneggiatore/produttore confessa di essersi documentato a lungo su quel mestiere e allo stesso tempo di aver fatto scivolare nella storia qualcosa di sé, specie un certo senso di solitudine vissuto dopo aver divorziato dalla compositrice Rachel Portman, che pure firma le musiche di “Still Life”.

Ne esce un film pacato nel clima generale, ma pieno di finezze, dettagli, episodi anche buffi, pure di pietà e asprezza, specie nella descrizione di quelle case ammuffite, piene di calze e mutande stese ad asciugare sui termosifoni, di bottiglie vuote, di carte da parati scrostate, di mobili tristissimi. Un mondo che spesso si spegne accanto a noi, giorno dopo giorno, e di cui spesso fatichiamo ad accorgerci. Intendiamoci “Still Life” non è un film di denuncia sociale, e tuttavia il ritratto dell’Inghilterra che ne esce induce a un discreto pessimismo sulla disumanità latente di un Occidente capitalistico sempre più marcato da diseguaglianze e distrazioni.
Se scapperà qualche lacrima, poco male: perché la storia di John May tocca corde sensibili, ma dentro una commozione lucida, mai furbetta, che riguarda le strettoie cruciali dell’esistenza (di tutti).

Michele Anselmi