Il problema principale di Stonewall, in uscita il 5 maggio nelle sale italiane, risiede nel rinunciare ad essere un semplice racconto di formazione sentimentale e nel voler, al contrario, ambire alla confezione storiografica e mélo delle origini di tutto il movimento LGBT statunitense degli anni Settanta. Roland Emmerich, gay dichiarato, tedesco naturalizzato americano e catastrofista hollywoodiano, ha messo i propri soldi nella realizzazione di un film che gli Studios non hanno voluto. Desideroso di narrare proprio tutte le parti in gioco per quanto concerne i moti di Stonewall, ha fatto il passo forse più lungo della gamba. Ma non del tutto.
Partendo dall’episodio riottoso, cardine nella storia dei diritti LGBT e che segna l’inizio del movimento (“Gay Power!” grida Dan, interpretato da Jeremy Irvine), si prende molte libertà – pur ispirandosi senza farlo ufficialmente a un film omonimo del ’95 – e va avanti e indietro nel tempo per narrare le vicende personali del giovane protagonista, fuggito dalla provincia perché rifiutato dal padre omofobo e dalla scuola. Alla ricerca della propria identità e di una carriera universitaria, Dan finisce nell’eccentrica strada newyorchese di Christopher Street, teatrino composto di personaggi al limite della società e che convergono tutti nel locale che dà il titolo al film. Non contento di aver creato un coro di prostituti en travesti d’accompagnamento per la vicenda (capeggiato dal bravo Jonny Beauchamp nel ruolo di Ray/Ramona), Emmerich condisce questo già affollato quadro multi-sociale volendoci inserire anche crimine organizzato, polizia, potere “sporco” e un personaggio, quello di Jonathan Rhys-Meyers, che poi si perderà nella folla e che dovrebbe rappresentare, oltre ad una fiamma di Dan, il lato democratico-riformista del movimento LGBT.
Decisamente troppa carne al fuoco per ottenere un risultato abbastanza convincente. Jeremy Irvine, nonostante l’impegno attoriale, i tratti da divo d’altri tempi e un fisico del ruolo da cowboy solitario dei marciapiedi, porta sulle proprie spalle tutto il peso del film e della vicenda reale, facendosi addirittura improbabile mecenate dell’evento che scatenò il primo fra i numerosi raid della polizia nei locali gay. L’esito è sgraziato come un pachiderma su tacchi a spillo, ma Emmerich si gioca le sue carte come ha sempre fatto, puntando al grande pubblico e volendo rischiare molto. Il linciaggio negli USA c’è stato, tanto da spingere la comunità a boicottare il film perché il protagonista sarebbe troppo bianco, troppo bello, insomma “troppo americano”. Il più grosso difetto è forse da imputare allo sceneggiatore televisivo Jon Robin Baitz; il lavoro fotografico e sul comparto scenografico e dei costumi è quasi interamente pervaso da un’ardita cromia calda, dorata, a tratti fiammeggiante nel vero senso della parola. Stonewall è un ritratto infedele, imperfetto, cartolina di un momento particolare della storia che Emmerich e collaboratori hanno gradito omaggiare e che, forse, la sensibilità europea sarà più disposta ad accogliere.
Furio Spinosi