“La memoria è scriba dell’anima” (Aristotele)

Rara filmografia volge lo sguardo alle conseguenze del conflitto mondiale da parte germanica. È il 1939 quando due bambini tedeschi sono condotti dalla madre presso una famiglia adottiva (Geoffrey Rush e Emily Watson), vicino a Monaco. Ma la piccola Liesel (Sophie Nelisse) arriverà da sola: il fratello, malato, morirà durante il viaggio. Morte (qui personificata vocalmente come identità al maschile), fin dall’inizio, presiede questa storia di separazione, guerra e lutti. È lei il narratore di Storia di una ladra di libri diretto da Brian Percival (regista britannico della serie Downton Abbey).
Primo impatto visivo e sensoriale è carezza soffice di nuvole bianche, carrello a volare in alto, senza destinazione. Da lassù intuiamo le parole della Grande Mietitrice. Un lavoro non semplice il suo, ma qualcuno deve pur farlo. Deve esserci qualcuno a prendere la grande decisione: chi vivrà e chi morirà. È Morte a decidere dei destini degli uomini. Con slancio tiene un corso di storia ed umanità. Ma questa non è una storia di morte, è soprattutto una buona lezione di vita. Liesel, adottata da Rosa e Hans, scoprirà presto, nelle lezioni di scrittura e lettura del padre-maestro Geoffrey Rush, l’importanza della parola. Di quanto, oltre il mero significato, essa sia memoria dei fatti del mondo e scriba dell’animo umano sì che l’immagine si fa via via parola sovrimpressa. Parola e poi parola e ancora frasi, pagine, libri interi: graffiti in gesso a colorare volti di protagonisti. Il britannico Percival, qui al suo secondo lungometraggio, dipana un racconto commovente sulla forza e la potenza della letteratura scegliendo di esculdere l’orrore del genocidio. Meglio si concentrerà sulle conseguenze oppressive della Germania nazista. Storia di una ladra di libri dà vita a un pugno di personaggi in movimento lungo Strada Paradiso. Il racconto, narrato da insolito cantastorie, inizia con un funerale. Qui Liesel recupera un libro caduto dal mantello di un becchino. Lo conserva come prezioso ricordo benché non sappia cosa contenga: la bambina non sa leggere né scrivere.
Il film racconta il viaggio di un’orfana che, dall’analfabetismo , dedicherà un’adorazione ossessiva per ogni libro a portata di mano. Questo percorso personale risponde alla trasformazione di Liesel in giovane donna coraggiosa, affascinante e affascinata dalle parole con cui cerca di dare un senso a ciò che senso non ha. Se il finale del film appare un po’ forzato in lunghezza, il dramma storico trae forza dalle performance del suo cast. In primo piano ovviamente Sophie Nelisse (Monsieur Lazhar). La giovane attrice del Québec mostra grandi, accattivanti occhi azzurri imponendosi con naturalezza sullo schermo. La sua semplicità simboleggia innocenza e ribellione. Emily Watson e Geoffrey Rush sostengono la giovane interprete con mani incredibilmente forti nei rispettivi ruoli di genitori adottivi sì da emozionare senza cadere nel melodramma forzato. Diventano il volto di quei pochi tedeschi coraggiosi, pur ossessionati da paura e incertezza nella Germania sottomessa ai nazisti.
Altro punto interessante nel trattamento del racconto di Marcus Zukas risiede nei legami tra i personaggi che ruotano intorno alla protagonista: il suo migliore amico, Rudy (Nico Liersch), e Max, il giovane ebreo (Ben Schnetzer), nascosto nella cantina. Questi legami atti ad unire gli uni all’altra, vicendevolmente, sono spesso troppo lineari , dolciastri e insipidi. Questa è probabilmente “la colpa” dell’adattamento di Brian Percival. Messi in scena malnutrizione, mancanza di lavoro, il rogo dei libri sulla pubblica piazza, il coro della scuola in uniforme nazista e i bombardamenti. Nonostante tutto questo, l’orrore bellico e il terrore della dittatura appaiono troppo sterilizzati, lisci e morbidi.

Chiara Roggino