Sin dai titoli di testa, una serie di fermo immagine che ritraggono animali selvatici, intelligentemente inseriti alla fine del primo episodio, possiamo intuire il leitmotiv di Storie pazzesche, il secondo lungometraggio di Damián Szifron prodotto dalla El Deseo di Pedro ed Agustín Almodóvar. In realtà anche il titolo originale, Relatos Salvajes, sarebbe abbastanza esplicito se nella traduzione italiana non gli avessero attribuito un significato abbastanza diverso. Infatti gli episodi che Szifron ci propone sono sì storie pazzesche ma ciò che più interessa al regista è l’elemento selvaggio che riporta l’uomo alla sua vera natura, una natura imbrigliata dalle convinzioni (e dalle ipocrisie) della società capitalistica occidentale. Quest’ultime sono state elaborate per favorire il vivere cosiddetto civile e, in teoria, per tutelare gli elementi più deboli delle società, ma col tempo sono invece divenuti strumenti delle classi più forti per  perpetrare sopraffazione e ingiustizia.

Così può capitare che una giovane cameriera possa incontrare, nel locale in cui lavora, l’uomo che ha distrutto la sua famiglia in veste di cliente. Costui è un usuraio, quindi un criminale ma, essendo dalla parte dei poteri forti, è tranquillamente a piede libero e, anzi, sta anche per candidarsi come sindaco del suo paese. Oppure succede che un bellimbusto con una potente macchina nuova si senta in diritto di insultare un contadino che procede sulla sua stessa strada ad una velocità meno sostenuta. Abbiamo anche un esempio dell’arroganza dello stato nell’episodio in cui un ingegnere viene vessato a causa di una multa per sosta vietata, o della persistenza delle strutture familiari ingabbianti nell’episodio in cui una giovane sposina scopre di essere stata tradita proprio nel giorno del suo matrimonio.

La forza catartica di Storie pazzesche sta nella reazione dei protagonisti di queste vicende. Essi, infatti, non incassano il colpo, come solitamente succede nella realtà, ma decidono di dare sfogo ai loro istinti più ancestrali reagendo all’ingiustizia subita tramite una potente carica distruttiva. La violenza è vista come un atto liberatorio, l’unico che può portare finalmente giustizia in un mondo in cui i veri predatori ormai si affidano alle leggi ed ai loro vari cavilli per trionfare. Il messaggio di questo film è forse un po’ esasperato ed estremo ma è anche un segno dei tempi. Ogni episodio si conclude con una dissolvenza in uscita sul nero, quasi a volere personificare l’oscurità che alberga in ognuno di noi e quella in cui vivono tutti i nostri istinti meno nobili e rimossi. Szifron ci ricorda, anche facendo uso di molto humour nero, che in ognuno di noi, animali addomesticati, alberga un essere selvatico pronto a venir fuori quando la pressione si fa troppo alta.

Maria Rita Maltese