A pochissimi giorni dalla conclusione della quarta stagione di “Stranger Things”, i pensieri che affollano la mente in merito alla nuova fatica dei fratelli Duffer si ingarbugliano e non si sa più cosa pensare esattamente. La prima impressione è di grande soddisfazione, successivamente, a mente più fredda, sfiora il pensiero che qualcosa nella scrittura della quarta e penultima stagione sia per forza di cose sfuggita di mano. Ma questo passa in secondo piano, perché i fan e non solo della serie fanta-horror hanno aspettato ben tre anni per poter scoprire l’evoluzione dell’avvincente storia sui ragazzini della fittizia cittadina di Hawkins. Beh, Hawkins non è più la Hawkins del 1983. E ci si avvia verso la fine non solo della serie, ma dei ruggenti anni Ottanta. Gli attori che interpretano Undici, Will, Mike, Dustin, Luke, Jonathan, Nancy, Robin, Steve e Maxine sono sempre molto giovani, ma sono anche molto cresciuti. L’innocenza è perduta e, come spesso accade, le strade si separano.

La qualità che si apprezza maggiormente in questa stagione dal piglio obbligatoriamente più Young adult è che, grazie al maggior minutaggio (il capitolo finale dura 2 ore e 20 circa), tutti i personaggi, in aggiunta agli “anziani” e ai secondari, riescono ad essere presi sul serio e a sviluppare un proprio arco narrativo preciso, senza per forza fare chissà che introspezioni nella psiche di ogni singolo individuo. Si percepisce, anche nelle inquadrature più intime e nella scelta di certe luci e tinte cupe e crepuscolari, quel sentimento di intimo terrore e mistero decisamente derivato dalla prima folgorante stagione, che ci conquistò con le sue atmosfere e le azzeccate scelte musicali anni Ottanta; a differenza di una terza stagione che aveva tanti spunti buoni, ma frullava troppi elementi mai approfonditi davvero in un calderone di fuochi d’artificio sfavillanti.

Questa quarta stagione è la più complessa narrativamente, anche a livello di montaggio (le situazioni da seguire in contemporanea sono davvero tante) e presenta perciò molteplici sfide superate brillantemente. Si avverte, tuttavia, una certa pesantezza nell’aggiunta di certi nuovi ruoli – su tutti quello del forcaiolo Jason Carver, capitano della squadra di basket – che servono solo da riempitivi, a creare quella tensione e a rimandare l’inevitabile vera battaglia tra bene e male da “finalone” fantasy. Inoltre, c’è la stanchezza di alcuni degli interpreti che, ormai diventati troppo anziani o troppo grandi per i loro vecchi abiti, sono già ingabbiati per sempre in quel ruolo a cui sono grati, ma che al contempo non riescono più a sopportare. In particolare, Millie Bobby Brown, nonostante vari accorgimenti di trucco ed effetti visivi “ringiovanenti”, non riesce più a sostenere il suo ruolo di protagonista assoluta, rivelandosi sempre più limitata alla parte fisica e gestuale del suo ruolo, mentre le faccette da svampita della, comunque, ottima Winona Ryder iniziano un po’ a stufare, così come la sua sfigata love story con Hopper.

Al netto di tutto ciò, il grande pregio di questa stagione è la sua originalità e, soprattutto, il suo nuovo, sfaccettato e complesso villain, lungi da qualsivoglia manicheismo. Fortunatamente gli autori sanno che non è possibile portare avanti per altre due stagioni le stesse dinamiche e i medesimi pattern ripetuti all’infinito; per questo, la fine della stagione non ha un cosiddetto “reset”, come le precedenti, ma finisce per poi ricominciare con un enorme cliffhanger che preannuncia l’inizio del prossimo catastrofico ciclo. Staremo a vedere.

Furio Spinosi