L’angolo di Michele Anselmi
Non so se sia davvero una “bufera social”, ma credo che le recenti, abrasive, sortite di Gabriele Muccino e Giovanni Veronesi nei confronti dei David di Donatello siano sbagliate. Nel metodo e nel merito. Da anni non faccio più parte di quella giuria, me ne andai ai tempi di Gian Luigi Rondi (lui mi capì), quando gli autori organizzarono un blitz, propagandato come una “riforma moralizzatrice”, che finì invece con il non moralizzare nulla e creare una disparità gravissima tra giurati di serie A e di serie B. Ma è storia passata.
Da sereno esterno a quel consesso dico però una cosa: non si può partecipare a una gara, e i David tale è, specie oggi che sono previsti sostegni ministeriali ai film premiati, pensando che il voto dei circa 1.700 giurati sia pilotato, lottizzato, inaffidabile, pigro, disinformato (scegliete voi l’aggettivo). Se questo si paventa, allora si decide di non gareggiare, per dare un segnale chiaro; altrimenti, a uscire allo scoperto per non aver ricevuto le candidature sperate, si passa inevitabilmente per “rosiconi”, insomma per quelli che nun ce vonno sta’.
Per questo non hanno ragione Muccino e Veronesi nel prendersela con quanto stabilito dall’insieme delle cinquine, in vista della cerimonia del prossimo 11 maggio su Raiuno, e cioè che in testa ci sono per ora “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti, “Hammamet” di Gianni Amelio e “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo, rispettivamente con 15, 14 e 13 candidature.
Giusto o sbagliato che sia (personalmente mi auguro che il David per il miglior film vada a”Volevo nascondermi”, che non è solo una cine-biografia del pittore Ligabue), bisogna stare al gioco, accettare il verdetto interlocutorio sancito dal primo scrutinio, anche se crea umani dispiaceri. I nobili pronunciamenti di principio o le alate teorizzazioni di metodo a nulla servono in questa fase, tanto più se appare subito chiaro, a chi sappia leggere tra le righe, la vera sostanza dei malumori.
Prendete Muccino. Ha ricevuto due “nomination” per “Gli anni più belli” (migliore attrice e migliore canzone), più l’inserimento nella cinquina del David Giovani. Non gli basta, pensa che sia un grave torto, che il suo film meritasse molto di più. Così, dopo aver rispolverato l’abusato vittimismo di cui sarebbe vittima a causa delle esperienze a Hollywood e confessato di non essere riuscito a finire per la noia “Favolacce”, ha accusato i giurati del premio di essere snob: “Tra me e i premi c’è una muraglia talmente forzata che è impossibile non farci caso. Che cosa si pensa? Che io stia zitto tutta la vita? C’è disinteresse nei confronti del pubblico, c’è snobismo verso chi fa cinema popolare”.
Ma quando mai? L’annata è stata quella che è stata a causa del Covid, le sale sono rimaste perlopiù chiuse, molti titoli di forte impronta popolare non sono usciti, s’è dovuto per forza aprire le categorie ai film pensati per le piattaforme. E comunque è nota la cura dei cine-premi nel tenere d’occhio il box-office, proprio per mettersi in sintonia con quelli che sarebbero i gusti del pubblico (quando c’era).
Quanto a Giovanni Veronesi, prima mostra di snobbare la faccenda in un tweet birichino, dove però parla di “scempio” perché nessuno ha preso in considerazione il suo “Tutti per 1 – 1 per tutti”; poi esclude “il complotto”, bontà sua; infine teorizza che d’ora in poi “ognuno dovrebbe votare la propria categoria: i produttori il miglior film e il miglior produttore, i registi la regia, la sceneggiatura e il film, gli scenografi la scenografia e così via”. Alla faccia di una visione d’insieme del film, il tutto dentro una logica da difesa corporativa e accanita dei singoli mestieri del cinema.
Vedo che la sortita ulcerata di Muccino ha ricevuto anche degli apprezzamenti. Benissimo. La giornalista Paola Jacobbi scrive ad esempio sulla sua pagina Facebook: “Magari per i motivi sbagliati (e quelli di ferita personale spesso lo sono, infatti poi ti si ritorcono contro, Gabriele sei un kamikaze!) almeno ha detto quel che pensa, attività sempre troppo poco praticata”. Ancora più simpatizzante il parere del critico Boris Sollazzo, sempre su Fb: “Il politically correct ed il fair play da bar hanno rovinato il panorama culturale nostro come quello internazionale. La sana, ma anche aspra, se pur sincera, polemica, figlia di una necessaria volontà di confronto, è fondamentale per la vitalità di un’intera industria culturale”. Di taglio contrario il parere di Maurizio Sciarra, cioè un collega di Muccino e Veronesi, secondo il quale “l’ego del regista pare abbia un unico comandamento: piacere per forza a tutti. In alcuni può diventare patologico”.
Temo che abbia ragione Sciarra. Hai voglia a evocare le nobili contese di un tempo, certo pure quelle umorali, tra “felliniani” e “viscontiani”, come fa Muccino, già protagonista in passato di una dura e legittima critica alla qualità estetica del cinema di Pasolini. Nei “j’accuse” un po’ meschinelli di questi giorni, secondo i quali “i titoli su cui ogni anno si canalizzano i voti sono sempre quelli che nessuno ha visto e i film dei grandi maestri come Amelio e Bellocchio vanno in cinquina di default”, non si rispecchia, secondo me, una contestazione aspra e nobile, ma solo un senso di “autostima” ferita dal legittimo esercizio di un voto.
Naturalmente è probabile che la polarizzazione su alcuni film nasca da una certa indolenza dei votanti, pure tenuti a vedere tutto, dall’aria che tira, dalla fretta di esprimere un giudizio, da qualche telefonata ricevuta, dalle amicizie nel ramo. Ma succede dappertutto, in ogni campo: basta saperlo. A volte aiuta, a volte no. Altrimenti, se ci sente destinatari di un’esclusione organizzata e ripetuta nel tempo, meglio andare mandare a quel paese i David e continuare a fare i propri film senza aspettarsi nulla dai colleghi in giuria.
Michele Anselmi