L’angolo di Michele Anselmi 

Bisogna ringraziare Netflix se si può vedere anche in Italia, sempre che interessi, ma dovrebbe, perché è davvero bello, il film indiano “The Disciple”, vincitore di un meritato premio per la migliore sceneggiatura alla Mostra di Venezia 2020. Porta la firma del giovane Chaitanya Tamhane, classe 1987. Ricordo che parecchi colleghi si assopirono al Lido durante i 128 minuti della proiezione e certo l’argomento può risultare ostico, faticoso, remoto, benché si parli dell’universale dilemma tra talento e passione.
Siamo a Mumbai, nel 2006: il promettente musicista Sharad Nerulkar ha consacrato sé stesso allo studio e all’esecuzione della musica tradizionale indiana, a suo modo “classica”, secondo le regole di un antico canone melodico/vocale chiamato rāga.
L’elemento religioso, se volete spirituale, è molto presente in questa nobile musica millenaria di origine indostana, anche se il protagonista, discepolo del venerabile maestro Guruji di cui si prende amorevolmente cura ricevendo in cambio sferzanti critiche, sembra vacillare di fronte al rigore ascetico contemplato: infatti lo vediamo spesso masturbarsi di fronte a dei video porno nel silenzio della sua cameretta.
“La tecnica si impara, la Verità no” teorizza una voce femminile registrata che scopriremo essere di Maadi, storica interprete di rāga. Sharad mobilita tenacia e perseveranza, anche un coriaceo egoismo, per avvicinarsi alla perfezione esecutiva, ogni volta dovendo fare i conti con un’amara realtà. E intanto una sconosciuta ragazza si fa strada in un talent-show televisivo, partendo da quella stessa musica per trasformarsi in una specie di Madonna indiana.
C’è forse qualcosa del Nanni Moretti di “Caro diario” nelle lunghe sequenze notturne che mostrano Sharad alla guida della sua moto, a velocità costante, ripreso da davanti e da dietro, mentre ascolta in cuffia antichi insegnamenti, come a depurarsi delle umiliazioni e delle inadeguatezze, alla ricerca di un equilibrio forse impossibile tra solitudine e successo, vocazione e pratica, devozione e riconoscenza. L’attore che lo incarna, Adidya Modak, è un musicista vero e si sente, anche se immagino che qua e là finga di sbagliare qualcosa nel canto per aderire ai tormenti del personaggio infelice.
Dimenticavo: il regista messicano Alfonso Cuarón, quello di “Gravity” e “Roma”, figura tra i produttori, di sicuro non è un caso.

Michele Anselmi