Affascinante, coinvolgente, profonda: è così che si può definire la miniserie originale Netflix “Il ragazzo giusto”, disponibile dal 23 ottobre. L’amore è espresso nella sua forma più ampia ed è solo uno dei tanti temi che articolano una storia, anzi un intreccio di storie ambientate tra Brahmpur, Calcutta e altri luoghi della penisola indiana. Soffermandosi alla trama, il primo elemento di spicco è la lotta di Lata per la scelta del futuro marito, rifiutando un matrimonio combinato dettato dalla tradizione. La miniserie Netflix, però, va oltre e lo fa senza appesantire la narrazione rendendola invece circolare, da dove si è partiti si ritorna, ma con una buona dose di cambiamenti annessi.
I sei episodi scorrono armonicamente andando ad incastrare riferimenti storici, elementi della tradizione, storie di vita, psicologie diverse senza che lo spettatore quasi se ne accorga. Se nei film hollywoodiani classici si attendevano la comparsa della star, che preannunciava il suo arrivo con tracce evocative, in questo caso non c’è un reale protagonista, non si scalpita per un personaggio specifico, piuttosto si attendono gli oggetti di scena, elementi che possano far comprendere cosa c’è oltre la storia in primo piano.
L’indizio principale per comprendere le diverse voci della narrazione è dato dall’introduzione iniziale, in cui colori, disegni e musica sembrano essere mescolati come tinte sulla tavolozza di un pittore, ma che, osservandoli con attenzione, palesano silenziosamente gli elementi presentati successivamente in scena tra scarpe, bambini, corpi distesi, lotte, ma soprattutto due mani che sbucano diagonalmente l’una verso l’altra. Due mani che si avvicinano, dunque, come nel Giudizio Universale di Michelangelo, due mani che non si toccano, ma che celano un simbolo: nel dipinto è l’energia che dal Creatore va verso il creato, nel film una possibilità di scelta che vacilla tra l’esserci e l’andare via. Nelle sei puntate a volte le mani si stringeranno, a volte si ritireranno dal contatto, però è necessario comprendere che quel tocco non riguarda solo Lata, ma piuttosto tutti quei personaggi di un probabile squarcio di realtà extraeuropeo negli anni ’50. In qualche modo si cerca di “normalizzare” culture che risultano lontane ed ermetiche rispetto a quella occidentale perché anche in questo caso, nonostante il valore della tradizione sia determinante, si assiste a tradimenti, giochi di potere e di religione, aspirazioni fuori dalle righe e passioni non sempre a lieto fine. La narrazione utilizza quindi una doppia strategia sottolineando le somiglianze legate all’amore, agli scontri generazionali e non solo, ai rapporti familiari e di amicizia, ma anche le evidenti differenze nell’abbigliamento, nelle tradizioni e soprattutto nel tempo. La stessa narrazione, ma su un contesto occidentale sarebbe stata più frenetica e veloce mentre qui lo scorrere del tempo è detto dal ritmo lento del Sitar e dalle parole di canzoni che colmano silenzi ed emozioni represse.
Cristina Quattrociocchi