L’angolo di Michele Anselmi 

A vedere nelle fotografie la piattaforma originale, la cosiddetta “Isola delle Rose”, dal nome dell’ingegner Giorgio Rosa che fu promotore dell’iniziativa, era poca cosa. Ma l’utopia è bella per questo, anche se il signor Rosa, scomparso a 92 anni nel 2017, non era proprio un rivoluzionario, anzi detestava i partigiani, da giovanissimo aveva partecipato alla Repubblica di Salò e poi militato nel Msi, forse sognava solo un piccolo “paradiso fiscale” per sé e qualche suo amico, alla fine perfino sorpreso dalla piega presa dagli eventi.
“L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” è il film di due ore che dal 9 dicembre passa su Netflix. L’ha diretto Sydney Sibilia, classe 1981, quello del simpatico trittico “Smetto quando voglio”, e prodotto da Matteo Rovere, già regista del notevole “Il Primo Re”. “Ispirato una storia vera” recita una scritta sui titoli di testa, ma sarebbe il caso di dire “vagamente”. C’è anche un libro di Walter Veltroni sul tema, pubblicato nel 2012, “L’isola e le rose” (Rizzoli); tuttavia il film non sembra aver preso da lì, benché sui titoli di coda si legga “Consulenza storica: Walter Veltroni”.
Il “sogno adriatico” risale al 1968. Il 1° maggio di quell’anno cruciale fu inaugurata la piattaforma, circa 400 metri quadrati, costruita con un certo ingegno da Giorgio Rosa appena oltre il limite delle acque territoriali di allora (6 miglia). L’idea veicolata dai giornali dell’epoca? “Creare una comunità di artisti dediti a pace, pittura, poesia e musica”. In realtà l’operazione rivelò subito un intento pratico: extraterritorialità fiscale per qualsiasi attività, il vezzo di decretare uno Stato indipendente con tanto di moneta, governo e francobolli rivenduti però a peso d’oro a curiosi e collezionisti, una costituzione in esperanto per aumentare la suggestione. Il tutto all’insegna di una certa goliardia. Ma la “Insulo de la Rozoj” durò poco: già il 25 giugno, cioè neanche due mesi dopo, furono apposti i sigilli e vennero rispediti a Rimini i due custodi. Nel febbraio del 1969 il tutto fu fatto esplodere, e ci vollero addirittura due cariche.
La costruzione del manufatto di ferro, cemento e mattoni era cominciata nel 1964, e sarà il caso di dire che il bolognese demiurgo, nel giorno dell’apertura al pubblico, aveva già 43 anni. Il film di Sibilia immagina invece un Rosa appena laureato in ingegneria a Bologna: un giovanotto ossessionato e pignolo, ottimista e sbrigativo, pure un po’ sognatore e maldestro, capace di costruire una piccola autovettura dimenticandosi di apporre la targa. Infatti lo incarna Elio Germano, che qui sfodera un marcato accento emiliano e teorizza “un mondo nostro per sentirci più liberi”.
In questa chiave romantica, un po’ da “romanzo di formazione”, Sibilia e la sua sceneggiatrice Francesca Manieri ricostruiscono la titanica/buffa epopea di quell’Isola delle Rose presa d’assalto dai giovani riminesi per ballare e presto diventata “imbarazzante” per il governo italiano. Insomma, avete capito: da un lato la sorridente rivolta escogitata da una specie di Fitzcarraldo italiano, dall’altro l’occhiuto controllo del potere costituito. La faccenda finì anche a Strasburgo, perché se ne discutesse al Consiglio europeo, anzi il film parte proprio da lì, dal novembre 1968, per poi risalire all’anno prima.
Ho la sensazione che Sibilia e Rovere abbiano saccheggiato “I Love Radio Rock”, la fantastica commedia di Richard Curtis sulla “radio pirata” nata su una vecchia nave, nel 1966, per aggirare i rigidi controlli britannici. L’aria che tira – non il risultato – è un po’ la stessa, irriverente e stramba, con qualche affondo grottesco nel ritratto dei potenti coinvolti, in particolare il ministro Franco Restivo e il presidente del Consiglio Giovanni Leone, resi in modo assai colorito da Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti.
Risultato: un film alquanto malfermo sui piloni, che gioca con l’aria del tempo, aggiorna l’idea di Sessantotto e fa dei sei protagonisti gli eroi di una “resistenza umana” di fronte alla corvetta pronta a cannoneggiare. Il tutto al suono della gloriosa “Eve of Distruction” di Barry McGuire.
Tanti gli attori coinvolti, anche il francese François Cluzet, il tedesco Tom Wlaschiha, oltre agli italiani Matilda De Angelis, Maurizio Orlandini, Andrea Pennacchi, Federico Pacifici; molti gli effetti speciali digitali per ricreare ambienti ed esplosioni; una presenza ossessiva del logo Cynar; naturalmente varie canzoni dell’epoca, da “Hey Joe” di Jimi Hendrix a “Il geghegé” di Rita Pavone, pure una sequenza di “La notte dei morti viventi” di George A. Romero.
Alla domanda “furono dei coglioni o dei ribelli?” francamente non saprei rispondere. Il film invece non ha dubbi.

Michele Anselmi