“Ricorda: il tango è soprattutto libertà”.

A volte basta una scena. Una. Sembra emergere dal nulla con un attacco a sorpresa, sconvolgendo il film e ammaliando lo spettatore. Attimi che parlano del talento di un cineasta e della qualità di un’opera. In Tango libre giunge da lontano, dai meandri della memoria. Dita intrecciate trattengono saldamente la presa: sciolte al pulsare del ritmo poi ricongiunte. E ancora gambe, nella coppia una cosa sola: solido intreccio pronto a slegarsi al prossimo passo. Energia, eleganza, fuoco, sensualità carnale, battaglia per la supremazia. Così nel gabbio l’ora di intervallo è scandita da pulsar di mani su tavoli e sedie a far da colonna sonora, seguendo palpito e accenti del ballo primordiale. Il principio del tango è improvvisazione, camminare in direzione a sorpresa lasciandosi guidare esclusivamente dal peso del corpo quando il partner vi si si abbandona naturalmente, affidandosi del tutto. Su questi cardini e sulla contrapposizione tra la sostanza di un’agile libertà su passi di danza e la limitata esistenza consumata nell’l’habitat carcerario, Fonteyne spiega la sua scelta: “Il tango e il cinema hanno una cosa in comune per me. Entrambi rivelano cose sul corpo che non potevano essere apprezzate in loro mancanza. Il tango schiude la goffaggine tragicomica dei personaggi, la bellezza di questo disagio.

Jean-Cristophe (Francois Damiens) ignora che l’esile Alice (Anne Paulicevich) sia già, moglie amica e amante, legata a due detenuti (rispettivamente Sergi Lopez e Jan Hammenecker), prigionieri nel carcere dove l’uomo presta servizio. La guardia è timida, rigorosa, ordinata all’eccesso (è sufficiente dare un’occhiata al suo appartamento). Uomo e donna si incontrano ad un corso di tango. I due saranno accoppiati dall’insegnante per un rapido scoccar di scintilla.
Avevamo lasciato Frédéric Fonteyne nel 2004, dopo il mezzo fallimento di La femme di Gille. Da allora ne è corsa di acqua sotto i ponti. Passata la crisi di mezza età, l’autore rivisita nel profondo il suo modo di far cinema. Giocato sul filo del trapezio al confine tra dramma e commedia, Tango libre mette a confronto un Damiens tutto controllo emozionale, la passione latina di Lopez e la pesante fisicità di Hammeneker. Il cineasta non prende le parti di nessun personaggio mentre tutti ruotano intorno alla stessa figura femminile, donna ammaliatrice capace di amare tutti senza distinzioni né gerarchie. Tramite questo tirangolo amoroso allargato, Fonteyne non si limita ad affrontare l’amore libero. Il suo è un’inno alla libertà supportato da attori coinvolgenti e da scene di ballo da cui emerge una reale magia di passione e corpi in movimento. I detenuti ballano il tango tutti insieme nel cortile della prigione. Riuscite ad immaginare un quadro che proietti libertà in maniera più efficace?

Il cineasta si innalza al di là degli opprimenti spazi carcerari tramite un montaggio dinamico (splendido il lavoro di Ewin Ryckaert). Questo avviene in particolar modo nelle scene di danza, là dove si alternano ampi piani che esaltano la drammatizzazione di posture inquadrate al dettaglio: una bandana intorno alla caviglia, i grafismi di un tatuaggio tribale che emergono dal collo, due mani che si stringono. Tango libre è un film che parla dell’amore portato al chiuso, tra le sbarre, una diapositiva in cui si imprimono amore e vite umane.

Chiara Roggino