L’angolo di Michele Anselmi 

La cosa più bella di “Django & Django: Sergio Corbucci Unchained” arriva forse coi titoli di coda, quando, in un supplemento di chiacchiera a ruota libera, Quentin Tarantino si lancia in una curiosa e arguta interpretazione di un personaggio femminile evocato in una scena del “Django” originale, anno 1966: la messicana Mercedes. Dubito che ci sia qualcosa di vero in quanto azzarda il regista di “Django Unchained”, ma appunto l’interesse del documentario firmato da Luca Rea e Stefano Della Casa (da un’idea di Nicoletta Ercole, musiche di Andrea Guerra, coproducono Tilde Corsi e Gianni Romoli) sta proprio qui: nell’afflato con il quale un eccentrico cineasta del presente ricorda e celebra un collega italiano del passato, Sergio Corbucci (1926-1990), nato con i “pepla” e Totò, cresciuto con i western all’italiana e infine approdato alle commedie con Celentano.
“Il secondo miglior regista di spaghetti-western dopo Sergio Leone” teorizza Tarantino. Se negli Stati Uniti non è facile stabilire chi venga dopo John Ford sul fronte del western (Sam Peckinpah, Howard Hawks, Raoul Walsh, Delmer Daves, Anthony Mann?), in Italia tutto suona più semplice, almeno secondo l’adrenalinico cineasta americano: ci sono solo due Sergio in cima alla classifica, cioè Leone e Corbucci. Il quale Corbucci girò tra il 1965 e il 1972 dieci western, partendo con “Minnesota Clay” e finendo con “La banda J & S”. In mezzo c’è naturalmente “Django”, 1966, che fu una sorta di spartiacque: perché lanciò Franco Nero presso il grande pubblico e perché battezzò una certa idea “grafica” della violenza, cara a Corbucci, estrema per i tempi e intinta in un mare di fango, letteralmente.
Nel documentario, distribuito da Lucky Red da oggi lunedì 15 novembre nelle sale per tre giorni dopo un passaggio alla Mostra di Venezia, appaiono anche Nero e Ruggero Deodato, che fu aiuto regista di Corbucci proprio in “Django”. Ma naturalmente è Tarantino il divo della situazione, il quale mostra di conoscere a menadito i film del suo beniamino, tanto da piazzarlo anche in una scena divertente di “C’era una volta… Hollywood”, quando il personaggio di Leonardo DiCaprio vola in Italia per girare un western intitolato “Nebraska Jim”.
Tarantino ha una tesi sulla vera natura politica dei film western di Corbucci: tutti, in qualche maniera, sarebbero un atto d’accusa nei confronti del fascismo, ben conosciuto nell’infanzia dal futuro regista. In effetti a un certo punto, parlando del “Grande silenzio” girato a Cortina, protagonisti Jan-Louis Trintignant e Klaus Kinski, Corbucci conferma: “Sì, è un film sul fascismo”. Poi è anche vero che il regista romano cercò di superare l’amico e rivale Leone in efferatezze, tanto da confessare: “Ho ucciso un sacco di persone, più di Nerone e Caligola”. Sullo schermo naturalmente.
Dicono i due registi: “Abbiamo lavorato sulla memoria, abbiamo cercato materiali inediti, abbiamo dato spazio al racconto e alla passione. L’idea è di raccontare un’epoca senza nostalgia, ma con affetto e con lo stesso senso del divertimento che è caratteristica dei due registi da noi omaggiati”. Ci sta, il documentario scorre veloce e piacevole. Poi certo bisogna mettersi d’accordo: molti di quei “spaghetti-western” risultano a me indigeribili oggi, non riesco proprio a considerarli pregevoli; vale anche per quelli di Leone, a parte “Per un pugno di dollari”, ma questo è un altro discorso.

Michele Anselmi