Sound & Vision
“The Beatles: Get Back” è un’opera monumentale. La serie diretta da Peter Jackson, disponibile da qualche settimana su Disney+, racconta la genesi dell’omonimo disco dei Fab Four e, conseguentemente, gli ultimi momenti della carriera dei Beatles. Il regista struttura il suo prodotto seriale in tre mastodontici episodi da oltre due ore ciascuno: una scelta coraggiosa in un mercato dove la logica del “binge-watching”, il consumo compulsivo di forme brevi, si impone sempre più prepotentemente. Le tre puntate ripercorrono, giorno per giorno, gli eventi che, in poco meno di un mese di tempo, hanno portato il gruppo di Liverpool al celeberrimo concerto sul tetto della Apple Records, un vero e proprio evento fondativo del rock ‘n’ roll. Peter Jackson, avendo avuto accesso ad un prezioso archivio audiovisivo mai prima d’ora reso pubblico, ha restaurato una quantità impressionante di riprese girate da Micheal Lindsay-Hogg, il regista presente in studio con la band nel 1969, donandogli così nuova linfa vitale.
Il montaggio non invasivo di Jackson, che si limita ad introdurre didascalie quando necessarie, immerge lo spettatore nel processo creativo in studio di registrazione, offrendogli la rara opportunità di osservare la genesi di alcuni inni generazionali come lo stesso “Get Back” o la lennoniana “Don’t Let Me Down”. Chi è mai stato in sala prove, da musicista o spettatore, conosce bene la frustrazione che può scaturire dopo numerosi arrangiamenti che non funzionano come sperato. Neppure la band più importante del mondo è risparmiata da questo logorante labor limae in cui i brani da acerbe idee iniziano a mutare prendendo una forma organica. Lo spettatore che fruisce della serie in maniera distratta verrà deluso se pensa di trovare solamente take perfette e una chimica invidiabile tra i quattro membri del gruppo. Tutti gli altri, invece, saranno folgorati dal fatto che, tra gli sbadigli dei musicisti e dialoghi che apparentemente non conducono da nessuna parte, hanno la rara l’occasione di assistere al processo creativo di una band che ha fatto la storia. Basta uno scambio di sguardi tra Lennon e McCartney, il sorriso del divertito tastierista Billy Preston oppure un’intesa musicale inaspettata, per ritornare ad essere ipnotizzati dalla narrazione. La potenza e la rara bellezza dell’opera di Jackson, lontana dalle licenze poetiche prese da biopic come “Bohemian Rhapsody”, risiedono proprio nella marginalità di alcune interazioni non ignorate dal regista, ma elevate a testimonianza preziosa tanto quanto una take perfetta in studio. Basta ricordare le numerose cover, anche apparentemente demenziali e dissacranti, eseguite dal gruppo inglese senza alcun fine ultimo. Oppure l’arrivo in studio del già citato Preston, l’ingrediente perfetto per risolvere il vero e proprio rompicapo che stavano diventando gli arrangiamenti: con l’aiuto del suo Fender Rhodes tutto assomiglia magicamente alle canzoni che conosciamo oggi. La tensione in studio è palpabile sin dalle prime inquadrature, documentata da Jackson principalmente tramite i dialoghi tra i quattro membri del gruppo, ormai paurosamente distanti nel modo di concepire i brani dopo l’esperienza maturata con gli album precedenti, dove la registrazione multitraccia rimpiazzava il dover suonare tutti contemporaneamente. È commovente vedere come l’affiatamento della band venga recuperato per un’ultima volta nel corso dei giorni che lo spettatore ha l’occasione di rivivere in prima persona. Difficile non emozionarsi difronte ad una band che concepisce la musica come un rito quotidiano da onorare giornalmente con costanza e dedizione. La potenza della serie sta anche nell’essere riuscita, senza essere macchiettistica, a ricostruire il microcosmo che gravitava intorno ai Beatles, dalla famigerata (ed ingiustamente odiata) Yoko Ono al “quinto Bealtes” George Martin, tutti personaggi comprimari, ma importanti quanto i baronetti per l’occhio attento di Jackson. Se la narrazione nei primi episodi procede in maniera dilatata, questo finisce in ultima analisi per catalizzare ancora di più la potenza immaginifica del “rooftop concert”, visibile, per la prima volta, in versione integrale, arricchito da un montaggio che alterna vari punti di vista, tra cui quello del pubblico, della band e dei famigerati poliziotti che provarono ad interrompere l’esibizione.
In conclusione, con buona probabilità l’opera di Jackson sarà destinata a resistere al test del tempo proprio perché racconta senza filtri la storia di quattro persone che, ai nostri occhi, ancor prima di apparire come musicisti leggendari ospitati nel pantheon della musica del Novecento, sembrano essere semplici esseri umani in costante dialettica tra loro, scissi tra il dialogo e lo scontro. La “Long and Winding Road” cantata da McCartney diventa allora l’allegoria di una band che, per l’ultima volta, percorre lo stesso tragitto impervio arrivando, alla fine, a pubblicare uno dei dischi più celebri di sempre. Insieme.
Gioele Barsotti