L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Il sottotitolo italiano è parecchio fuorviante. Solo perché Kate Winslet è vestita di rosso, alquanto scollata e scosciata, alla maniera di Rita Hayworth, non significa che sia tornato il diavolo. E anche la canzone di Gloria Gaynor “I Will Survive”, piazzata nel trailer, c’entra poco o nulla, non fosse altro perché la storia è ambientata nel 1951.
Però è un curioso film “The Dressmaker”, ovvero “la sarta”, che la cineasta Jocelyn Moorhouse ha tratto dall’omonimo romanzo di Rosalie Ham (Mondadori). Spiazzante, trasversale, imprevedibile, forse solo un po’ eccessivo nel suo grottesco squisitamente australiano, tra panorami western e modelli di Balenciaga. A rimettere piede a Dungatar, quattro case in mezzo al deserto, è Tilly Dunnage, ovvero Kate Winslet (benissimo doppiata da Chiara Colizzi), che da lì fu cacciata circa vent’anni prima, appena adolescente, con un’infame accusa di omicidio mai provata. «Sono tornata, bastardi» sospira appena scesa dal pullman, posando a terra la sua arma segreta: una macchina per cucire Singer.
La giovane donna, ricca e spietata come il conte di Montecristo, è naturalmente animata da lucidi propositi di vendetta nei confronti di quel piccolo mondo meschino, fatto di corna ramificate e pessimo gusto, di inconfessati segreti e protervia classista. Divenuta una raffinata stilista, per aver lavorato nei più grandi atelier parigini di haute couture, Tilly rimescola la stagnante atmosfera del paesino, portando una ventata di sensuale modernità: i suoi abiti, colorati, audaci, di fantasioso taglio, fanno il resto, mettendo a nudo, come ha scritto il critico Pino Dangola, «la vanità e l’invidia delle donne del piccolo centro rurale: è la miccia che fa esplodere a catena la sporcizia ammucchiata per un tempo eccessivamente lungo».
Non impiega molto, quella bella figliola cresciuta in Europa, a sgretolare il castello di menzogne e ipocrisie sulle quali si regge il precario equilibrio di Dungatar; anche se Tilly, quasi un fiore profumato tra quei mostri del deserto, non è poi così cinica e determinata come sembra. Aiuta la vecchia madre malata, bisbetica e sporca a rimettersi in carreggiata (Judy Davis); si innamora di un prestante e generoso amichetto d’infanzia che vive in una specie di bidonville (Liam Hemsworth); ha cordiale simpatia per il poliziotto “en travesti” molto preso da boa e piume di struzzo (Hugo Weaving). E intanto la società locale si mobilita contro di lei, “l’assassina” forse innocente ma esposta di nuovo alla riprovazione, in un crescendo di eventi tragici e buffi.
C’è di tutto, dentro “The Dressmaker”: i blues di Billie Holiday e il guanto di “Gilda”, echi del “Macbeth” e brani di “Viale del tramonto”, femminismo e operetta, in un gioco di densi cromatismi, oscillanti tra il rosso e il verde, che riserva a ogni passo una sorpresa, un cambio di registro, un affondo ora sentimentale ora acidissimo.
L’Australia rurale è un mix di Inghilterra e Stati Uniti, infatti la regista Moorhouse si diverte a muoversi, esteticamente, tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra decoro piccolo-borghese e praterie riarse, preparando il gigantesco falò che brucerà tutte le vanità. Si vede che Kate Winslet, dimagrita e imbiondita, qui diversa dalla feroce boss della mafia ebraica di “Codice 999”, si è molto divertita a entrare negli abitini fatali e sexy della sua Tilly, a indossare quelle stoffe raffinate e setose così “eversive” rispetto allo spento decoro locale del dì di festa. La vendetta è un piatto da servire bollente su una tovaglia di abbacinante taffetà.
Michele Anselmi