Un film – del 2010 – di cui poco o niente si è parlato, sul quale le recensioni sono inesistenti o quasi, eppure un film che senza dubbio dà da pensare e che offre spunti riflessivi sia da un punto di vista strettamente antropologico e sociale che da quello più intimamente psicologico e umano.

Ne esiste una precedente versione tedesca – Das Experiment – del regista Olivier Hirschbiegel del 2001, che senz’altro non possiede le sfumature e l’attenzione al dettaglio della versione statunitense “The Experiment”; entrambi si basano sul libro dello scrittore tedesco Mario Giordano “Black Box” del 1999 e sul reale esperimento tenutosi nella prigione di Stanford nel 1971 ad opera del professor Philip Zambardo della Stanford University.

Zambardo riprese alcune teorie dell’antropologo, psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon (1841-1931), in particolare la teoria della “deindividuazione” che Le Bon, nel suo saggio del 1891 “Psicologia delle folle” così spiega: “ciò che più ci colpisce di una folla psicologica è che gli individui che la compongono […] acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di trasformarsi in massa. Tale anima li fa sentire, pensare e agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro –  isolatamente – sentirebbe, penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa”.

E’ così che lo studioso statunitense riprodusse l’ambiente carcerario nei seminterrati della Stanford University, e attraverso un annuncio su di un giornale, reclutò un certo numero di volontari per il suo esperimento, offrendo in cambio una lauta ricompensa in danaro. Tra di loro vennero scelti 26 volontari in base a colloqui, test e proiezioni video, come il film ci mostra; di essi, otto vestiranno i panni delle guardie del carcere, i restanti diciotto, quelli dei prigionieri.

Le personalità di ognuno di loro vengono delineate dal regista con particolare attenzione, facendo emergere un apparente equilibrio che ben presto, in un contesto reale diverso, irromperà in inspiegabile violenza.Il film tedesco di Hirschbiegel è, a differenza di quello di Scheuring, privo di qualsiasi rimando o simbolismo. Se nella versione tedesca gli autori dell’esperimento sono loro stessi a controllare, attraverso monitor, lo svolgersi delle giornate, nella versione statunitense è interessante notare come lo stesso controllo sia demandato esclusivamente ad una serie di telecamere posizionate in ogni spazio all’interno del penitenziario, corrispondendo spesso all’obiettivo della macchina da presa.

Inevitabile il richiamo al personaggio di Alex di Arancia meccanica di Kubrick nella scena in cui viene imposto a Travis, convinto pacifista, di assistere a video  imperniati su scene forti e crudeli.

Il film tedesco di Hirschbiegel è, a differenza del film di Scheuring, privo di qualsiasi rimando o simbolismo. Se nella versione tedesca gli autori dell’esperimento sono loro stessi a controllare, attraverso monitor, lo svolgersi delle giornate, nella versione statunitense è interessante notare come lo stesso controllo sia demandato esclusivamente ad una serie di telecamere posizionate in ogni spazio all’interno del penitenziario, corrispondendo spesso all’obiettivo della macchina da presa.

Il personaggio principale è Travis, interpretato da Adrien Brody, il quale accetta di prender parte all’esperimento in seguito al suo licenziamento presso la casa di cura dove lavorava; dopo aver conosciuto Maggie ad una manifestazione pacifista decide, con il denaro che avrà guadagnato con l’esperimento, di raggiungerla in India.

L’altro personaggio ad essere tratteggiato è Barris: si tratta di un ultra quarantenne, interpretato da Forest Whitaker, scontento e frustrato che vive ancora con la madre malata. Travis e Barris, che prima di indossare i panni rispettivamente di prigioniero e guardia, sebbene inizialmente abbiano legato una certa amicizia, verranno ben presto però riconosciuti dai gruppi come i loro capi incarnando sostanzialmente i due tipi antitetici: l’uno vittima, l’altro carnefice.

La durata dell’esperimento avrebbe dovuto essere di due settimane e avrebbe dovuto rispettare alcune regole fondamentali: se solo una di queste non fosse stata rispettata, incluso quella della violenza, l’esperimento sarebbe stato interrotto e nessuno dei volontari sarebbe stato pagato.

Il film si apre con una veloce sequenza di immagini legate alla natura e alla lotta per la sopravvivenza: il più forte reprime il più debole; così anche nel genere umano e nell’esperimento di Stanford: le guardie indossano uniformi, sono munite di manganello, manette e fischietto mentre i prigionieri vestono ampie divise chiare con un numero sul taschino; la loro identità si riduce a delle cifre,  i riferimenti alle persecuzioni nazi-fasciste contro gli ebrei si fanno sentire attraverso questi elementi oltre alla scena in cui la testa di Travis viene violentemente rasata sotto l’ordine di Barris.

L’incalzare della forza e dell’impeto del potere personale va in un crescendo: nello svolgersi della narrazione, man mano che il film procede, si fa preponderante nelle guardie la perdita della personalità quanto più cedono all’uso arbitrario della forza connessa allo stato di cui godono.

Il potere come processo di deindividuazione, costituitosi all’interno del carcere inteso come istituzione, spinge l’individuo a fare proprie, nell’assunzione dei valori comportamentali, le regole dell’istituzione stessa, dimenticando la propria personalità e responsabilità di azione e facendo venir meno quelli che sono i normali sensi di colpa, del pudore, il sentimento di paura… è in questo modo che la coscienza e la consapevolezza di se stessi come individui e la personale responsabilità connessa alle azioni compiute si annullano, identificandosi esclusivamente con quelle del gruppo.

Non a caso Philip Zimbardo testimoniò come perito ai processi nella prigione di Abu Ghraib durante l’occupazione militare dell’Iraq.

Dopo solo due giorni dall’inizio dell’esperimento iniziano a verificarsi i primi episodi di violenza: qualsiasi pretesto veniva colto per punire duramente i prigionieri, umiliandoli e minacciandoli, costringendoli a lavare le latrine a mani nude, fino alla violenza corporale … al quinto giorno il comportamento dei prigionieri era ormai passivo, quello delle guardie sadico.

I risultati dell’esperimento ebbero dei risvolti talmente drammatici e non prevedibili da doverne interrompere lo svolgimento. Nel momento in cui Travis e gli altri riescono ad avere la meglio sulle guardie, una sirena all’interno del carcere suona dando fine all’esperimento; durante il viaggio di ritorno a casa uno dei prigionieri chiede a Travis se, alla luce di  tutto quello che hanno vissuto,  ancora creda di sentirsi più in alto della scimmia sulla scala evolutiva e Travis risponde: “Si, perché possiamo ancora fare qualcosa”.

Onorina Collaceto