“The Guilty”, remake fedele del film omonimo danese è il nuovo film Netflix con come unico (o quasi) protagonista Jake Gyllenhaal, ed è una delle pochissime pellicole dignitose distribuite dalla piattaforma. La trama è semplice e ricalcata dall’originale, diretto da Gustav Möller e vincitore di tre premi al Torino film festival 2018. Un poliziotto, Joe Baylor, in attesa di un’udienza in tribunale, risponde alle chiamate d’emergenza del 911 in modo svogliato, finché una donna, Emily (Riley Keough), non gli fa capire di essere stata rapita, risvegliando in lui tutta una serie di reazioni e sensi di colpa in merito a un evento che scopriremo gradualmente solo verso il finale.
Jake Gyllenhaal, qui in veste anche di produttore, e il regista Antoine Fuqua (“Training Day”, “Southpaw – L’ultima sfida”) confezionano un thriller dalle tinte fortemente noir che riesce a sfruttare il testo originale applicandolo al contesto americano e odierno, e forse ha successo persino nel fare meglio da un punto di vista prettamente espressivo e drammaturgico.
Il film ha inizio con delle riprese aeree di Los Angeles surreali, la città è inghiottita dai fumi dei terribili incendi accaduti di recente. Poi si adagia sui primi piani di Jake Gyllenhaal, in una sorta di lentissima ed inesorabile sua discesa agli inferi, mentre fuori altri tipi di inferni materiali e spirituali si scatenano. Tralasciando le scontate doti naturali dell’attore, che si è sempre messo totalmente a servizio dei suoi personaggi a costo di sfigurarsi, il vero talento qui lo si riscontra anche nel lavoro di adattamento di Nic Pizzolatto (“True Detective”), che copia tutta la situazione originale, ma la trasporta in un mondo diametralmente opposto a quello del film originale. Quello era un dramma da camera algido, ambientato in Danimarca con volti e voci molto trattenute tipicamente del posto, senza alcuna speranza, totalmente relegato ad un’unica location. Qua, pur lasciando invariata l’impossibilità quasi totale di Joe di andarsene dal lavoro, si alternano periodicamente delle altre inquadrature che seguono, sulle strade di L.A, il van della donna rapita. Soprattutto le interpretazioni di Jake Gyllenhaal e dei suoi comprimari al telefono sono fortemente esasperate, così come a tratti lo stile di regia di Fuqua, che ha ammesso di essere un grande fan di Sidney Lumet, va di pari passo.
La rivisitazione del genere noir in chiave “telefonica” e in periodo pandemico di Nic Pizzolatto, a differenza dell’originale, tenta nel finale di andare persino oltre e di mostrarci degli spiragli di redenzione e pace interiore, e forse è proprio lì che inciampa. Ma l’interpretazione di Gyllenhaal, al contrario del quasi inamovibile danese Jakob Cedergren, è fisica, febbricitante, somatizza e infine butta fuori – fisicamente e non – tutti i suoi drammi, travolgendoti e stordendoti completamente, a meno che non si abbia un cuore di ghiaccio.
Furio Spinosi