Un film non nuovo, 2008. Ci ha messo un bel po’ per farsi notare… Presentato un paio d’anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia in cui, vi ricorderete, nell’ormai celebre disputa tra Silvio Orlando e The Wrestler riusci’ ad aggiudicarsi solo un paio di premiolini assolutamente marginali. Svenduto per un milione di dollari alla Summit Entertainment al termine del Festival di Toronto. Passato inosservato nelle sale italiane; distribuito in soli quattro cinema in tutti gli Stati Uniti d’America. …6 premi Oscar.
Tra cui miglior film e miglior regia, per la prima volta ad una donna, Kathryn Bigelow, annunciata da una fiera Barbra Streisand e il suo soddistaffo "Well, the time has come".

Applicazione costante della suspence hitchcockiana, il film: una serie di bombe e uomini che non sai mai se esploderanno. Capace di tenerti col fiato sospeso, un ordigno dopo l’altro, colpi di scena come proiettili. Mentre dall’alto i civili osservano, uno spettacolo che avevamo gia’ visto in Valzer con Bashir : palazzoni di mattoni secchi senza intonaco, occhi da dietro le finestre puntati sul palcoscenico della guerra.
Sulle strade polverose, nelle piazze deserte attraversate perlopiu’ da gatti ciechi e rifiuti, gli artificieri tentano di disinnescare ordigni e proteggersi dai cecchini. Una guerra vera, in cui anche i belli muoiono e i prigionieri, talvolta, scappano. Le armi si inceppano, i protagonisti si sporcano, le munizioni vanno pulite dal sangue per poter funzionare (“sputa e strofina”). Scontri armati completi, in tempo reale, lenti.
Corpi bomba o esplosioni comandate. Bruciano auto, bruciano corpi, bruciano strade. E quando intorno c’e’ il buio, il fuoco e’ l’unica cosa che riesci a vedere.
Ogni sequenza e’ un quadrante di gioco. Movimenti coordinati, la videocamera che segue le azioni. L’obiettivo corre da un soldato all’altro, osserva da vicino gli americani singoli di quest’unita’ speciale addetta a liberare il campo dagli esplosivi.
Il protagonista, ovviamente, e’ un folle.
Una specie di gangstar dell’esercito con spiccato senso dell’umorismo e palese sprezzo del pericolo. Uno che se deve disinnescare un grappolo di bombe si toglie la muta di protezione perche’, tanto, se dovra’ morire preferisce farlo stando comodo.
Sa di essere osservato, e vuole dimostrare eroismo per chi guarda dalla finestra. Non gli va di essere visto mentre si affatica dentro una muta da astronauta del deserto: un soldato rappresenta pur sempre qualcosa, non puo’ sembrare goffo, non puo` stare in attesa. Non puo’ cercare di proteggersi troppo.

Sole rovente, per due ore di sequenze quasi senz’acqua. Non c’e’ pioggia, il caldo brucia dentro l’uniforme e sulle labbra secche.
Ogni volta che indossano la tuta e vanno li’ fuori, poi, e’ come se lanciassero un dado: non sai mai come va. Solo un drappello d’uomini, in fondo, e la guerra colpisce tutti.
Non sanno perche’. Ma evitano anche accuratamente di chiederselo.
Un film sulla vita in guerra, questo, ma anche su vite che non possono fare a meno della guerra.
Una storia tratta dalle dirette esperienze del giornalista e sceneggiatore Mark Boal, raccontata attraverso lo sguardo femminile di una donna. Bigelow, una che forse, come me, avete molto ammirato per film come Point Break o Strange Days. E che sembra amare un bel po’ fare film da e di uomini.
Fuoco in buca!
Fuoco in buca!
Fuoco in buca!
Non chiedetevi cos’e’, guardatelo e basta. Se vi capita.